Giorgio Bertazzini, 46 anni, insegna diritto ed economia politica all’Istituto Tecnico Statale per Ragionieri Vincenzo Benini di Melegnano. Dal 1990 ha scelto di insegnare nella sezione associata della casa di reclusione di Milano Opera. E’ presidente della sezione lombarda dell’associazione Antigone.

Mi sono avvicinato al carcere quando studiavo legge all’università di Pavia. Il professore di diritto dell’esecuzione penale organizzava ogni anno delle visite in varie carceri italiane. C’era chi ci andava come si andrebbe allo zoo, un gruppo di noi invece rifletteva. Visitammo Porto Azzurro, la Fortezza di Volterra, San Giminiano, Spoleto, il manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, tentando un’elaborazione politica che sfociò in tesi di laurea come quella della mia amica Irene Invernizzi, pubblicata da Einaudi col titolo “Il carcere come scuola di rivoluzione”; la prefazione era di Norberto Bobbio.
Dopo la laurea ho scelto l’insegnamento, ma continuando ad occuparmi di carcere nella commissione carceri del Pci pavese e come insegnante volontario e sindaco di una delle prime cooperative per l’inserimento lavorativo dei detenuti ed ex detenuti; si chiamava “La Goccia”. Da 11 anni invece, cioè da quando la scuola in cui sono di ruolo ha aperto una sezione associata nel carcere di Opera, buona parte del mio lavoro si svolge lì.
Insegnare in carcere vuol dire innanzitutto vivere una contraddizione condivisa con gli stessi studenti detenuti. Da un lato c’è il carcere, che è un’istituzione che difficilmente rieduca in quanto tale; un luogo opaco diciamo noi di Antigone, auspicando invece un carcere trasparente, il più possibile libero da quel quantum di penalità eccessive che non è meccanicamente insito nella misura di privazione della libertà di movimento. Del resto la Costituzione della Repubblica italiana non prevede il carcere; l’articolo 27 dice che le pene devono consistere in trattamenti non contrari al senso di umanità e tendere alla rieducazione del condannato. Entra quindi in gioco tutta la questione dei diritti, diritto alla salute, all’affettività, al reinserimento e, strettamente collegato a quest’ultimo, il diritto della società ad eseguire una pena, ovvero il secondo termine della contraddizione. Alla fine parte tutto da qui, dal problema di stabilire quale pena. In Italia la centralità spetta ancora al carcere, anzi, negli ultimi dieci anni la popolazione detenuta è raddoppiata (oggi è di circa 55.000 unità), nonostante la legge Gozzini preveda la possibilità di misure alternative per i detenuti che accettano di sottoporsi al cosiddetto trattamento scientifico della personalità, quelli cioè che intraprendono un percorso formativo (scuola, lavoro, rapporto con l’educatore).
Qualcuno lo definisce il meccanismo del bastone e della carota. Io non mi sento di liquidarlo così facilmente, specialmente di fronte all’atteggiamento neocustodialista e giustizialista che sta tornando ad imporsi.
Che la ricetta di chiudere la cella e buttare la chiave sia fallimentare lo dimostra anche l’esperienza americana dove il fenomeno della porta girevole (un susseguirsi di recidive, carceri ridotte a vere scuole di delinquenza) è più consistente che da noi. Ecco perché le contraddizioni passano in secondo piano rispetto alla difesa di quel po’ di “carota” che abbiamo. C’è una frase uscita dai lavori degli studenti di Opera più illuminante di tante riflessioni: “Prima eravamo delle bestie”. Sono parole dure, ma qui c’è tutto. C’è l’utilità di un percorso culturale e formativo che per molti di loro è la prima occasione per la ricostruzione, se non per la costruzione, di un vissuto. Ma c’è anche la denuncia di una condizione di emarginazione sociale, quell’essere dei “poveracci” che, secondo il direttore Caselli, riguarda buona parte dei detenuti nel nostro paese. Attualmente in Italia 13 dei carcerati ha commesso reati direttamente o indirettamente connessi alla tossicodipendenza; tra questi anche dei giovanissimi fra i 18 e i 20 anni. Se pensiamo che per tangentopoli non sta dentro quasi nessuno e per la criminalità organizzata siamo al 2%, credo sia lecito parlare ancora di provenienza di classe. Prendiamo gli studenti (nel mio osservatorio rientra comunque un’élite, dal momento che arriva alle superiori chi ha già concluso il ciclo del’obbligo): il detenuto studente tipo ha fra i 25 e i 30 anni, sconta una pena medio alta e appartiene a classi sociali basse o disagiate. Naturalmente mi riferisco ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!