Giovanna Cappelletto è professoressa di Lettere in un Istituto tecnico di Este, in provincia di Padova.

Loro hanno come una sindrome dell’orfano, dell’abbandonato. Recentemente abbiamo fatto un’esperienza con degli psicologi della Usl e i miei alunni dovevano concludere una storia che gli era stata proposta: la storia di un ragazzo di 16 anni, con una sorella più piccola, un fratello più grande e bravo, il padre piccolo artigiano assente, una madre molto concentrata sulla figlia e presente, però fino a un certo punto, e lui, il protagonista, che va a scuola ma non va bene. E un gruppo che lavorava con diapositive, ha concluso la storia con un’immagine drammatica: un ragazzo sui vent’anni, barbone, che va in giro a chiedere l’elemosina. Loro poi l’hanno messa sul ridere, però ho avuto la netta impressione che fosse venuto fuori qualcosa di vero. Molti di loro, non tutti, perché poi trovi situazioni più felici, con ragazzi più seguiti, sono effettivamente molto abbandonati a se stessi. E la cosa paradossale è che ciò avviene in un mondo in cui il bambino, diventato una merce rarissima, è ipercoccolato, protetto anche, spesso tanto più protetto rispetto a quanto lo siamo stati noi da bambini o da adolescenti. C’è questa convivenza paradossale di un’attenzione, anche eccessiva a volte, e di abbandono vero. Penso che il dramma sia appunto questo, che si è interrotto il meccanismo, esistito da quando esiste l’uomo, della trasmissione di padre in figlio. Si è interrotto drammaticamente il filo col padre e col nonno. Per cui i ragazzi stanno male, stanno malissimo. Vengono cacciati di fronte a una tv da quando hanno un anno di vita e ci restano per sempre. La tv è diventata uno dei pochi, se non addirittura l’unico strumento che gli dà qualcosa. Quello che gli dà poi è estremamente povero, è quasi niente. Il problema è un po’ questo, ed è per quello che noi facciamo così fatica.
Qui poi la situazione è un po’ particolare. E’ una zona dove il denaro è tanto importante. Uno dei miei allievi recentemente mi diceva: “ma cosa vuole, con la mia mamma e il mio papà si può parlare solo di soldi...”. Molti dei miei ragazzi per esempio lavorano, lavorano il fine settimana in pizzeria, prendono, che so, 800 mila, un milione al mese e si mantengono. Ma hanno 15 anni e vivono all’interno di famiglie non povere, dove non è che manchino i soldi. In queste zone c’è una dedizione al lavoro spesso fine a se stesso, al puro recupero di denaro. Quando un ragazzino mi dice “il mio papà non può venire a parlare perché lui lavora sa...” sottintende che io sono qui a non far niente...
Poi il denaro dà anche arroganza. Mi è successo di trovarmi in classe il ragazzo di 18 anni che ti tratta così così perché pensa che tu sei anche povera e tutto sommato non ha torto. Mi aprì in faccia il portafoglio pieno di biglietti da 50.000 e 100.000. Qui è molto diffusa la piccola azienda, c’è parecchia ricchezza e girano tanti soldi. Molti, a 18 anni, hanno la macchina grossa regalatagli dal padre, e, come ho detto, molti lavorano. E’ un fenomeno che non conoscevo, che credo tutto sommato recente, non solo legato alla crisi ma proprio a un cambiamento di mentalità, per cui alla cultura non viene attribuito più alcun significato forte. Negli anni ’60-’70 anche in una casa operaia i libri c’erano, non c’erano tanti soldi ma qualche libro sì. Invece, adesso, i libri non ci sono più, ci sono i soldi e l’unico valore che almeno mantengono è quello del lavoro fine a se stesso. E il tutto convive e si intreccia con un senso diffuso di grande insicurezza.
L’anno scorso, durante gli esami di qualifica a giugno, una ragazza a un certo punto si ferma, mi guarda negli occhi e dice: “vede, da quando lui è al governo -e lui sarebbe Berlusconi- io mi sento più sicura, lui ci darà lavoro”.

Poi ti rendi conto che, se gli dai qualcosa di diverso da quello che viene loro normalmente offerto, sono sensibilissimi. E questa è una delle poche soddisfazioni che ormai mi sono rimaste. Per esempio quest’anno, facendo una fatica terribile per altro, ho cominciato a leggere Pirandello. E, visto che non se lo compravano, il libro l’ho regalato io, facendo una cosa che forse può essere molto criticabile. Ma ci tenevo tanto e loro, prima, sono rimasti spiazzati, poi hanno cominciato a guardarmi con un occhio diverso, e alla fine hanno cominciato anche ad appassionarsi alla lettura. Questa cosa mi è molto piaciuta. Ora riesco a leggere anche due ore senza il so ...[continua]

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