Stefania Gander è nata a Merano 30 anni fa. Attualmente cura le pubbliche relazioni per un ente privato di Bolzano. Alle spalle ha una lunga esperienza di volontariato con l’Arci di Padova e con il Consorzio italiano di Solidarietà, con cui si è recata in Bosnia durante la guerra per portare aiuti. Si sta attivando per promuovere i gruppi di autoaiuto per i familiari di transessuali. (Sito Internet: http://mem-bers.xoom.it/stefania_bz).

Maggio 1997, ritorno a casa
Dovessi vivere in eterno, non potrò mai dimenticare il suono della voce di mia madre all’altro capo del filo del telefono. Fu l’unica volta in cui mi sentii contenta di aver udito il mio nome al maschile; in quel nome, nel modo di pronunciarlo, mia madre aveva dato sfogo a tutte le sue paure, le sue angosce, la sua stanchezza e, soprattutto, a tutto il suo amore. Ero viva. Tre settimane dopo essere scappata di casa, avevo avuto il coraggio di chiamare e di chiedere aiuto. Volevo chiedere perdono per il fatto di essere così, ma era anche la telefonata di una ragazza disperata, tremendamente sola, l’ultimo tentativo per provare a rimanere agganciata alla vita. Se fosse andata male, la mia esistenza sarebbe terminata pochi secondi dopo, sotto un metrò parigino. Invece andò bene. Tra le lacrime, mia madre mi chiese, quasi implorandomi, di tornare a casa, mi disse che tutto si sarebbe sistemato, che avremmo risolto ogni cosa. Io la supplicavo di venirmi a prendere, volevo solo lei, nessun altro, avevo troppa paura di tutti. Mia madre riuscì a calmarmi. Poi mi disse "Adesso ascolta Stefy, dovresti proprio parlare con tuo padre... Non ti preoccupare, è al corrente di tutta la situazione... Devi parlargli, sta soffrendo tantissimo". L’idea di dover parlare con mio padre mi fece gelare il sangue. Cosa dovevo dirgli e, soprattutto, cosa mi avrebbe detto? E poi, come? Cosa significava che "era al corrente della situazione"? Voleva forse dire che aveva saputo che il suo figlio primogenito era transessuale? E come l’aveva presa, lui che era sempre stato tanto rigido nei confronti di qualsiasi devianza sessuale?
In realtà, la paura di parlare con mio padre si rivelò del tutto ingiustificata; in questi due anni, ho dovuto cambiare spesso opinione sui suoi atteggiamenti nei confronti della "diversità". Al telefono pianse anche lui. Ma mi tolse subito dall’imbarazzo: "Stefy, torna. Non avere paura, risolveremo tutto insieme". La testa mi girava, le mie paure, le mie angosce, i miei sensi di colpa si stavano liberando in un colpo solo, esplodendo con una violenza inaudita. Per la prima volta in ventisette anni avevo intravisto una seppur minima possibilità di farcela. Parigi rappresentava per me la città dalle mille possibilità, la città in cui io avrei potuto realizzarmi, vivendo una vita anonima. Ma io non ero pronta ad abbandonare tutto. Amavo troppo la mia famiglia per potervi rinunciare, ma forse l’amavo troppo anche per riuscire a rivelare loro che ero transessuale. Ero partita improvvisamente nella notte tra il 9 e il 10 aprile. L’idea di partire c’era, ma non l’avevo ancora elaborata completamente. Quella notte, però, era successo un fatto che mi aveva fatto accelerare i tempi. Ero stata fermata dalla polizia stradale in totale stato di ebbrezza, mi avevano ritirato la patente e sequestrato l’auto. L’alcol, negli ultimi tempi, stava diventando un pericolosissimo compagno di viaggio, un modo facile per negarmi alla vita. Quando i poliziotti presero la mia patente, mi vergognai moltissimo. Avevo capito di essere caduta troppo in basso, di aver toccato il fondo. E la mia reazione fu la fuga. A Parigi, vennero a prendermi i miei cugini francesi e mi portarono a Les Imbertes, in Provenza, la cittadina di cui mia madre è originaria. La sera sentii ancora mio padre al telefono: "Ascolta Stefy, noi arriviamo domani. Non ti preoccupare, non ti chiederemo niente di Parigi, non voglio sapere nulla di quello che hai fatto, di quello che è successo, a meno che non sia tu a volerlo". La voce era calda, calma e dolce. La voce di un padre che amava sua figlia più di qualsiasi altra cosa al mondo. Sabato 10 maggio, la Peugeot bianca dei miei fece il suo ingresso nel cortile della casa di mia zia.
Faceva caldo, ed avevamo apparecchiato una grande tavolata in giardino. Mamma e papà scesero dalla macchina. Ricordo quel momento come fissato in una fotografia: i loro volti emozionati, illuminati ed esaltati dal sole. Ci abbracciammo forte. Fu mio padre il primo a ...[continua]

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