Il Collettivo Verde si è costituito nel 1989 all’interno del carcere di Voghera. All’intervista erano presenti Santo Tucci, Vincenzo Andraus, Luigi Fontana, Vincenzo La Paglia e Giuliano Pallavicini.

Qual è la storia del Collettivo Verde?
Santo Tucci. Ora il collettivo è formato anche da detenuti giovani, con pene anche inferiori ai 10 anni. Noi fondatori, invece, siamo in carcere da almeno 25 anni (abbiamo pene superiori ai 30 anni, qualcuno l’ergastolo), per cui abbiamo vissuto da reclusi il periodo degli anni di piombo, dell’emergenza Br, dell’emergenza mafia; in un certo senso siamo cresciuti all’interno di questo tipo di atmosfera.
Il Collettivo è nato alla fine degli anni Ottanta, quando dopo aver trascorso tanti anni in isolamento, in carceri speciali, soprattutto per scontare le condanne riportate per i reati commessi all’interno delle carceri, ci siamo ritrovati in questo istituto che rappresentava un po’ l’ultima spiaggia, tipo l’Asinara.
Qui a Voghera venivano concentrati i detenuti più pericolosi presenti nelle varie carceri italiane e tra questi c’eravamo anche noi che abbiamo poi dato vita al Collettivo Verde. In quegli anni infatti, quasi contemporaneamente, in ciascuno di noi stava avvenendo un cambiamento interiore, per cui ci siamo incontrati e abbiamo parlato a lungo cercando di capire cosa volevamo e come potevamo muoverci; dopodiché ci siamo autoconvocati. E’ stata quindi una scelta tutta nostra; all’inizio eravamo più di tredici, poi qualcuno si è perso per strada; eravamo pochi anche per il fatto che all’epoca incontrarsi con l’istituzione, parlare, era visto come una forma di grave tradimento di quelle che sono le fondamentali regole interne del carcere.
Del resto, noi non avevamo scelta, perché il rapporto con l’istituzione era necessario. Noi infatti, a seguito di tutto quello che avevamo fatto all’interno degli istituti, avevamo il grossissimo problema della credibilità. L’allora direttore generale, Amato, però ha percepito che c’era qualcosa nell’aria, e ci ha assecondato, così quando abbiamo cominciato a protestare per avere un po’ di spazi all’interno con gli scioperi della fame, quasi per caso è nato un rapporto tra noi e l’istituzione centrale, la direzione generale.
Il cappellano dell’istituto (che c’è tuttora, anche se sta poco bene) è stato da subito l’anima di questo gruppo, perché ha creduto in noi quando l’istituzione locale era molto rigida; del resto ci conosceva. Comunque, si è scommesso su di noi e noi abbiamo cercato di meritarcelo, per i primi due anni per esempio nessuno, l’abbiamo messo anche per iscritto, ha puntato ai benefici che la legge prevedeva proprio per far sì che la cosa non sembrasse strumentale. Così, abbiamo iniziato questo processo; abbiamo avuto anche delle cadute voglio dire, del resto era in atto un cambiamento che era quasi una rivoluzione, anche della mentalità. Voglio dire, il carcere è istituzionalizzato, fino alle banalità più imprevedibili: anche i colori dei muri -può sembrare una stupidaggine- che devono essere tutti uguali, poi il fatto che si mangia a mezzogiorno, all’una si va a passeggio...
Voi invece avete lottato per l’autogestione. E’ stata questa la scelta dirompente...
Santo. L’autogestione ha significato proprio rompere questi meccanismi, entrare un po’ nella vita normale, riprodurre in un certo qual modo le regole della società all’interno di un piccolo gruppo.
Abbiamo avuto tante critiche dai nostri vecchi compagni all’inizio, che però sono state compensate dalle tantissime richieste pervenute nel corso degli anni. A distanza di dieci anni infatti il collettivo risulta un modello che pur con tutte le difficoltà riesce ancora a vivere, a sopravvivere e a interessare gli altri, significa che qualcosa di positivo c’è. All’inizio era semplicemente impensabile per tanti di noi che un giorno si potesse andare a lavorare fuori...
Io sono in art. 21 in attesa di poter uscire con la semilibertà e la condizionale, perché sono nei termini di legge per ottenerla. Attualmente lavoro in una fabbrica qui a Voghera con Andraus e Russo, un altro ragazzo. Oggi noi a distanza di tanti anni siamo quasi tutti nella possibilità, parlo dei "vecchi", di poter accedere definitivamente alla libertà con la condizionale, quindi se non credessimo in quello che si è fatto, perché dovremmo continuare a scommetterci? Se continuiamo è anche perché vediamo arrivare persone come Aurelio, come Vincenzo che sono siciliani come me (io sono di Catania), e che si ...[continua]

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