L'orgoglio e la vergogna
cosa sta succedendo

Una Città n° 309 / 2025 aprile
Intervista a Arlie Russell Hochschild
Realizzata da Barbara Bertoncin
L'ORGOGLIO E LA VERGOGNA
Il senso di perdita e l’orgoglio ferito, soprattutto tra i maschi bianchi, terreno fertile per il successo di un leader che sfrutta il sentimento di vergogna, facendosene carico, trovando capri espiatori e alimentando un senso di riscatto, se non di vendetta; l’incognita degli effetti dell’economia sulla popolarità di Trump. Una sinistra incapace di ascoltare e di creare “ponti di empatia” con la sua base elettorale di un tempo. Intervista ad Arlie Russell Hochschild.
Arlie Russell Hochschild, sociologa statunitense e professoressa emerita all’Università della California, Berkeley, è celebre per i suoi studi sulle emozioni nella vita sociale e politica. Tra le sue opere più recenti: Strangers in Their Own Land. Anger and Mourning on the American Right (2016) sul movimento del Tea Party in Louisiana, e Stolen Pride: Loss, Shame, and the Rise of the Right (2024), di cui si parla nell’intervista. I suoi lavori indagano il legame tra vissuto personale e trasformazioni politiche, in particolare nell’America conservatrice.
Può raccontarci com’è iniziata questa ricerca, com’è arrivata a Pikeville?
Da tempo sono preoccupata e al contempo affascinata dall’ascesa della destra negli Stati Uniti.
Nel 2016 ho scritto un libro incentrato su una regione degli Stati Uniti profondamente di destra, il Sud, la Louisiana, dove il Tea Party, un precursore del movimento Maga, era molto forte. Lì ho imparato che le cose che Donald Trump offriva alle persone facevano risuonare in loro qualcosa, incontrando un terreno emotivo fertile, sopratutto tra quelle che sentivano di aver perso qualcosa.
A quel punto volevo andare più a fondo e capire le modalità di reazione alla perdita, le sue ripercussioni sul senso di vergogna e di orgoglio e, infine, come questo predisponesse al messaggio di Donald Trump.
Volevo andare oltre e ho scelto un’altra area del Paese, il Kentucky orientale, il Kentucky 5, che è la regione più bianca e la seconda più povera del Paese.
Anche se poi ho scoperto che non era propriamente questo l’aspetto importante: non è che fosse un’area povera e bianca di per sé, bensì che sentiva di aver perso quello che aveva. L’elemento della perdita si è rivelato più importante rispetto alle caratteristiche del contesto. Quindi gli abitanti erano bianchi, ma avevano perso i vantaggi dell’essere bianchi.
Addentrandomi in questa microstoria, una storia minore e locale, ho scoperto che i posti di lavoro nel settore del carbone erano via via scomparsi, contestualmente era arrivata la terribile crisi degli oppiacei. Quindi perdita e dolore. Ma questo rispecchia una storia nazionale per il 42% degli americani, che sono bianchi e senza una laurea, i cosiddetti colletti blu. Questo gruppo, lasciatemelo dire, ha subìto delle perdite importanti negli ultimi tre decenni. I loro posti di lavoro nel settore manifatturiero, un tempo ben retribuiti, sono stati delocalizzati o automatizzati. Quindi si sono visti costretti ad accettare -come dicono loro- “lavori da donna”, cioè mansioni legate ai servizi e poco retribuite. Ora, quando c’è una perdita economica, subentra anche una ricaduta sociale. Sappiamo che sempre più persone vivono da sole, che le famiglie vengono sconvolte, peggiora la salute fisica, ci sono crescenti problemi di obesità. E gli uomini, soprattutto quelli bianchi e senza laurea, sono più soggetti di altri gruppi a quelle che vengono chiamate “morti di disperazione”, per alcolismo, tossicodipendenza e suicidio. Questo è un dato nuovo. Non è sempre stato così.
Quindi la perdita di cui parliamo è assoluta, ma anche relativa, per esempio rispetto ad altri bianchi che hanno una laurea e che vivono in città e Stati blu. È relativa anche rispetto ai neri che, partendo da un livello molto più basso, a causa della discriminazione, stanno comunque meglio di prima.
La mia ricerca aveva come obiettivo quello di capire come le persone si sentono al riguardo, come affrontano questa situazione. Senza dilungarmi troppo, uno dei temi cruciali è che questa perdita provoca un senso di vergogna, tanto più grave in un popolo molto orgoglioso e molto centrato sull’individuo: “Accidenti, ma cosa ho fatto per rimanere disoccupato, per guadagnare così poco? Per essere un tale fallimento?”.
Quello che io sostengo è che questa è una vergogna strutturale, che tuttavia rende le persone particolarmente predisposte e sensibili a chi fa appello a quel senso di mortificazione. Credo che il successo di Donald Trump, che è un leader carismatico, venga da qui: la sua capacità di conquistare la devozione di queste persone sta proprio nella sua abilità nel fare breccia su questo disagio attraverso quelli che ho definito dei rituali anti-vergogna, di riscatto simbolico.
Ma mi chiedevi anche come sono arrivata a Pikeville. È una storia curiosa. Dopo il lavoro sulla Louisiana, a un certo punto ho ricevuto una telefonata da un deputato democratico qui in California che mi ha detto: “Salve, sono il deputato Ro Khanna. Rappresento la Silicon Valley. Sono democratico. Sono una persona di colore. Molti dei miei elettori sono persone di colore”. Tra me e me intanto pensavo: perché mi sta chiamando? E aggiunge: “Ti cerco perché ho attraversato il corridoio e ho trovato un accordo con Hal Rogers, un deputato repubblicano che rappresenta i minatori di carbone disoccupati nel Kentucky orientale. Voglio lavorare a un programma di addestramento sul coding, grazie al quale dopo sei mesi una persona è in grado di programmare, di scrivere codice per i cellulari. È un lavoro ben pagato. Invece di esternalizzare questo tipo di lavori a Bangalore, in India, vorremmo che queste mansioni venissero reinternalizzate e affidate ai minatori disoccupati del Kentucky orientale. Ti può interessare questa storia?”. Ho risposto: “Quando posso venire?”. Finalmente c’era una buona notizia!
A Pikeville ha raccolto tante storie, com’è riuscita a conquistare la fiducia delle persone con cui ha parlato?
La prima persona che ho incontrato e che mi ha accompagnato nella ricerca è stata una giovane donna che è presente nel libro. Aveva svolto una serie di lavori a basso salario. Era disperata. Aveva lavorato in una stazione della metropolitana per assemblare panini. Aveva fatto il turno di notte in un motel guadagnando pochissimo. Era quindi entusiasta di questo programma.
L’avevo conosciuta a Louisville, dove era una studentessa. Quando ho saputo che viveva a Prestonsburg, nel Kentucky orientale, le ho detto: “Posso venire con te?”.
Come ho fatto a conquistare la sua fiducia? Devo dire che con lei non è stato affatto difficile e siamo infine diventate amiche. Altri mi hanno accolto con un po’ più di diffidenza, ma, sapete, avere i capelli grigi aiuta. Mi chiedevano che ci facessi lì, raccontavo di essere una professoressa in pensione, spiegando: “Sono preoccupata per la grande frattura che c’è nel nostro Paese”. E loro: “Beh, anche noi siamo preoccupati per questo”. E quindi cominciavamo a parlarne. A volte erano incuriositi dal mio cognome, Hochschild, allora raccontavo di mio marito, scherzandoci su (“ho sposato l’uomo più dolce e gentile che abbia mai conosciuto, ma quel cognome... tutte consonanti?!”) poi di mia nonna, cresciuta in una piccola azienda lattiero-casearia nel Maine rurale. Mio padre era un avvocato di Boston, aveva fatto carriera, ma aveva mantenuto l’accento regionale.
Quando condividi le storie a un certo punto succede qualcosa. Ricordo un uomo che, dopo avermi ascoltato, mi ha detto: “Sa, noi del Kentucky orientale veniamo sempre presi in giro per il nostro accento”. Gli ho detto: “Anche mio padre pronunciava sempre il mio nome con l’accento di Boston”. E lui: “Che sia benedetto”. Insomma, se ti metti nella giusta disposizione, anche di gratitudine per l’incontro, se disattivi il tuo sistema di allarme morale e ti metti in un atteggiamento di ascolto e non di sfida… beh, posso dire con certezza che se un colloquio non va bene, è colpa mia.
Quello che ho imparato fin dai primi incontri è che ci sono tanti costruttori di ponti sia dalla loro parte che dalla nostra ed è una grande emozione incontrarli.
Il mio messaggio, la lezione da trarre è che dobbiamo imparare ad ascoltare. Temo che non lo sappiamo più fare. Bisogna abbattere una piccola barriera culturale.
Comunque, onestamente, non ho incontrato difficoltà a parlare con queste persone. Sono anzi desiderosi di essere compresi. Con molti siamo ancora in contatto.
Lei afferma che i democratici liberali paradossalmente sono più propensi dei repubblicani conservatori a interrompere una conversazione quando emergono opinioni divergenti.
Sì, a sinistra diciamo di voler rivolgerci agli altri, ma non sappiamo come farlo e non diamo neanche valore a questi tentativi. Invece avremmo un disperato bisogno di azioni come queste.
L’altro dato, che fa il paio con quello che dicevi, è che i conservatori hanno necessità, per così dire, di abbassare la temperatura quando si discute di politica e di riportare la conversazione a un’interazione vis-a-vis con una persona. È in questo modo che imparano a fidarsi.
Quindi ciò che la sinistra non sta facendo è proprio la cosa di cui la destra avrebbe bisogno.
Alcuni suoi intervistati lamentano di risultare “invisibili” per entrambi i partiti. Accanto ai concetti di perdita e vergogna, in tante storie emerge anche la necessità di sentirsi utili per recuperare un senso di dignità...
Per me è stato interessante anche studiare le diverse culture dell’orgoglio. Negli Stati Uniti vige una cultura dell’orgoglio altamente individualista. Proprio oggi qualcuno mi ha inviato per email una poesia di W. H. Auden in cui parla dell’essere povero. In Inghilterra se uno è povero è perché i suoi genitori erano poveri. Negli Stati Uniti se sei povero, sei pigro. Insomma, è colpa tua. È interessante. In realtà le cose non stanno evidentemente così: se la tua fabbrica va offshore? E se vivi in una regione rurale senza opportunità?
Quello che lega il fallimento alla pigrizia è un modo di interpretare le cose molto individualista, molto americano e molto, si può dire, consono a un sistema capitalista. Ma questo è stato discusso da Alexis de Tocqueville molto prima che il capitalismo prendesse piede. Questo per ribadire che la cultura conta molto. Non è solo quello che ti succede, ma il suo impatto sulla tua autostima, sulla tua capacità di sentirti un essere umano degno.
Come si inserisce Trump in questa dinamica che lei ha definito dell’orgoglio rubato, in cui il senso di vergogna porta a cercare dei capri espiatori?
Vorrei dire alcune cose preliminari. Credo che Trump abbia effettivamente vissuto il senso di vergogna come figlio di un padre molto severo. Questa sua personale vicenda di avversione alla vergogna verosimilmente l’ha reso estremamente sensibile a questo sentimento. Teniamo presente che vergogna non è una parola che si senta pronunciare frequentemente da politici e giornalisti.
È una sorta di strato invisibile della realtà che è stato legato all’ideologia di destra nel corso della storia.
Le persone che ho conosciuto nel Kentucky orientale hanno subìto molte perdite ed è vero che nessuno dei due partiti ha offerto loro una via d’uscita, né i Democratici, né i Repubblicani. Il loro grido di dolore rimaneva inascoltato. Da questo punto di vista, il terreno era già stato preparato perché la gente cercasse un leader carismatico che potesse condurli fuori dal deserto. Credo che Donald Trump abbia fatto proprio questo, facendo appello al loro desiderio di alleviare il dolore della vergogna.
A nessuno piace sentirsi mortificato, umiliato. La vergogna è la pelle del nostro sé più profondo, ha a che fare con la percezione che abbiamo dello sguardo altrui su di noi. È diverso dal senso di colpa, che riguarda una relazione interiore. Si tratta qui di un rapporto tra noi e il mondo sociale fuori di noi: ci sentiamo accolti, respinti? È questa cosa qui. E noi proviamo sentimenti profondi al riguardo. Tutti noi, ma soprattutto coloro che sono stati feriti nell’orgoglio. È uno stato d’animo che suscita confusione e angoscia.
Donald Trump, a mio avviso, ha avocato tutto questo in modo molto brillante e sottotraccia.
Io scrivo i miei libri anche per renderci “bilingui”, in modo da poter andare oltre la superficie e ascoltare ciò che viene detto in politica o sul lavoro o nella vita familiare, non solo dal punto di vista razionale, ma anche emotivamente. Perché c’è una logica anche nella conversazione emotiva che si svolge. Credo che molte persone non si stiano sintonizzando su questa logica, per cui non comprendono appieno la situazione in cui ci troviamo.
Allora, qual è la conversazione emotiva segreta, la conversazione senza parole che si svolge quando Donald Trump parla a queste persone? Io credo di aver individuato quattro momenti. All’inizio, Trump dice qualcosa di trasgressivo: “Gli immigrati haitiani mangiano i vostri cani e gatti domestici”. È un’affermazione sconvolgente. In un secondo momento, l’opinione pubblica liberal infama Trump per aver detto una cosa così scioccante e falsa: “Non si possono ripetere i pettegolezzi riportati da una donna, non è vero… questi haitiani sono esseri umani”.
Terzo momento: Trump si pone come vittima di questi denigratori: “Guardate come se la prendono con me. Cercano sempre di mettermi in difficoltà. Mi danno del bugiardo… Non è la stessa cosa che succede a voi? Non è terribile sentirsi messi alla berlina e criticati quotidianamente? Io mi farò carico anche della vostra vergogna”. La sinistra dice: “Ma di che cosa sta parlando?”. Perché non capiscono che il punto più importante è quello che sottintende: “Stanno facendo a me quello che vogliono fare a voi. Voi non piacete ai liberal, vi guardano dall’alto in basso. Ora di questo mi occupo io; è una cosa che fa male, ma sarò io a farmene carico per voi”.
Questo è il terzo momento. A cui segue il quarto, che è una specie di rivalsa: “Ora siamo noi al potere. Possiamo finalmente vendicarci del deep state, del Partito democratico…” e di tutta la lista dei vari nemici, da Joe Biden a Barack Obama, a Hillary Clinton e altri.
Ora, quello che penso stia accadendo è che, tornando alla divisione in America, la metà democratica stia ascoltando il primo e il secondo momento, cioè l’affermazione trasgressiva e la sua condanna, e la metà repubblicana il terzo momento e il quarto, cioè il vittimismo a cui segue il riscatto, la vendetta.
Questo rituale dei quattro momenti non è una cosa del passato, continua a svolgersi ogni mese, ogni settimana, pressoché ogni giorno, seppure in modi diversi. Questa dinamica libera il sentimento di vergogna e lo trasforma nella colpevolizzazione di qualcun altro e quindi nel desiderio di punizione.
Ho cercato di indagare tutto questo parlando con alcune persone arrabbiate e provando, per così dire, a risalire la corrente. “Cos’è che la fa arrabbiare? Possiamo approfondire quello che le è successo?”. Un uomo mi ha parlato di Donald Trump come di un “lightning in a jar” (lett. “fulmine in barattolo”, Ndr), di un evento straordinario. Allora gli ho chiesto di parlarmi di questo fulmine. E poi ho condiviso con lui questa mia idea di quello che ho definito “un rituale in quattro momenti contro la vergogna” e lui si è messo a ridere e ha detto: “È proprio così!”. Un altro uomo ha commentato: “Certo, e i liberal ci cascano ogni volta: lui dice qualcosa di trasgressivo e loro subito gli vanno dietro e così fanno i media, che sulle polemiche fanno soldi”.
Ho chiesto: “Quindi credete che Donald Trump provochi intenzionalmente la sinistra in modo che scatti il meccanismo dei quattro momenti?”. Mi è stato risposto molto semplicemente: “Sì”.
Insomma, quello che sto raccontando non è un mistero. Quando ne parlo, tutti riconoscono che è proprio così. Da questo punto di vista forse questo libro svela un piccolo tabù, che è venuto il tempo di affrontare.
Venendo agli eventi di queste ultime settimane, ha avuto modo di parlare con le persone di Pikeville?
Recentemente ho scritto un articolo per il “Wall Street Journal” proprio su come Trump si sta rivolgendo alla sua base elettorale, ora che le cose in questo Paese diventano quasi ogni giorno più estreme. Ho quindi intervistato nuovamente le persone di Stolen Pride. In quella regione, il 45% delle persone non ha votato. Tra coloro che hanno votato, il 20% lo ha fatto per Kamala Harris, il rimanente 80% per Donald Trump. Per loro non c’era nessuno, nel
ticket democratico, che lo eguagliasse in energia e capacità di creare sintonia. Non mi sorprende che abbiano scelto lui. Non c’era nessun altro per cui votare, secondo loro. I Democratici dicevano: “Biden ha approvato molte proposte di legge che porteranno soldi nelle tasche dei lavoratori e nuovi posti di lavoro negli Stati rossi”. Ma loro non hanno visto niente di tutto questo e poi non hanno visto alcun emissario. Invece, diverse delegazioni repubblicane sono andate in quel distretto e le persone si sono sentite viste e ascoltate.
Ho interrogato i miei interlocutori prevalentemente su due cose per capire cosa sta succedendo. All’interno di quell’80% ci sono due gruppi di persone: una parte crede che Trump non possa sbagliare, punto. L’altra ha votato per lui con un atteggiamento all’insegna dell’“aspettiamo e vediamo”.
La domanda che avevo in testa era: c’è un punto di svolta, una soglia oltre la quale la legittimità di questo leader potrebbe essere messa in discussione? Perché ha il potere, ma la legittimità è un’altra cosa. Ho dunque chiesto loro cosa pensassero della deportazione di Abrego Garcia in un carcere di massima sicurezza di El Salvador. Secondo il “New York Times” si è trattato di un incidente amministrativo, un atto incostituzionale che dovrebbe costringere a rimpatriare quella persona. I seguaci di Trump del primo tipo mi hanno risposto che il governo ha fatto bene perché è un membro dell’Ms 13, un criminale, ecc.
Mi dispiace dirlo, ma non ho visto emergere un possibile punto di svolta in questa regione tra i sostenitori di Trump rispetto alle forzature istituzionali e ai rischi per la democrazia. Non ho sentito dire da nessuno che la detenzione è ingiusta e che quella persona ha comunque dei diritti, come tutti noi. Salvo forse in un caso. Ho incontrato un uomo, figlio di un minatore. Imparo sempre tanto attraverso le storie personali. Quest’uomo è un battista della Chiesa di Cristo di Little Beaver a Elkhorn, nel Kentucky, una piccola località rurale. È stato nell’esercito e mi ha detto: “Ho visto cose che non posso dimenticare”. Per un certo periodo si è interessato molto a Qanon. Ha votato per Donald Trump. Quindi, sempre nella mia testa, l’avevo inserito nella categoria degli estremisti.
Era nella “factosfera” di quelli di destra, ascoltava quelle notizie... Invece mi ha detto: “Beh, sì, potrebbe non essere americano e, sì, può essere un criminale, ma non possiamo essere ridotti al nostro atto peggiore. Ha una famiglia. Dovrebbe trovarsi un lavoro…”. Insomma, sorprendentemente gli dispiaceva, si era come identificato con quest’uomo. Non ha detto: “È un nemico del popolo, portatelo via, toglietegli i diritti”.
Quindi ci sono persone che ascoltano i fatti propagandati dalla destra, ma ragionano con la loro testa, spesso in modo più empatico. Infine, ci sono ovviamente le persone che dicono: “No, ci stanno mentendo. Non è vero. Ho altre fonti di notizie e sulla base di ciò che so e di ciò che credo, questo è fascismo. È un momento spaventoso nella storia del nostro Paese. Garcia è stato il primo ma, ricordiamoci la lezione del ‘Prima vennero a prendere gli immigrati… poi vennero a prendere me’”.
Ovviamente la sinistra guarda a questo scenario con terrore e allarme. La destra, che dire? Nei miei interlocutori ho cercato di intuire se c’era una qualche preoccupazione su questo, ma in effetti non ho avvertito questo sentimento nel distretto Kentucky 5. Comunque questo è il punto di svolta numero uno e riguarda la difesa dei diritti umani, il sistema di pesi e contrappesi, il potere della Corte, ecc.
L’altro possibile punto di svolta è un peggioramento della situazione economica. Qui come sono state le risposte?
Qui vedo delle possibili crepe, perché alla gente è stato detto che si trattava di rendere l’America di nuovo grande, di far tornare le opportunità. Invece sembra che quello che dovranno affrontare è un aumento dei prezzi dei beni fondamentali, dal costo dell’auto per andare al lavoro, al prezzo del latte, delle uova, della benzina. I prezzi potrebbero presto aumentare a causa di questa guerra tariffaria. Al contempo, i servizi potrebbero essere tagliati perché Elon Musk con la sua motosega ha definito la Sicurezza Sociale uno schema Ponzi, se l’è presa con Medicaid: “Queste persone dovrebbero andare a lavorare!”. Ha avviato tagli a servizi da cui queste persone dipendono: il 45% degli abitanti del Kentucky beneficia di Medicaid! La maggior parte dei bambini della regione riceve i buoni pasto.
Quindi penso che il punto di svolta numero due, quello economico, sia quello che più facilmente porterà a una perdita di fiducia in questa leadership. Voglio dire che, se questo sistema va in crisi, molte persone probabilmente cambieranno idea su Donald Trump, soprattutto se si vedranno ricacciati in quella povertà per fuggire dalla quale tanto hanno lottato.
Rispetto al dibattito interno tra i Democratici? Non c’è il rischio che Trump, per certi versi, stia andando così male da esonerarli da una seria autocritica?
È una delle cose che oggi mi preoccupa; potrebbe essere il mio prossimo progetto.
Il libro scritto da Vance è a tratti illuminante, non solo per le cose che fa capire ma anche per un taglio autocritico verso i suoi. È difficile pensare che la persona che era nella sala ovale con Zelensky abbia scritto quel libro.
La città in cui trascorreva le estati con la nonna e la madre dista solo due ore di macchina da Pikeville. Devo dire che la gente di Pikeville, che pure ha votato per Donald Trump, non ama J. D. Vance perché si sente in qualche modo messa da parte, li ho sentiti dire: “Non gli piacciamo…”.
In queste aree le persone si dividono tra chi rimane e chi se ne va, e lui se n’è andato, ha abbandonato il suo paese e guarda a chi è rimasto con disprezzo. Quindi questa gente si sente respinta e ripudiata da lui, cosa che non sentono con Donald Trump. È una sorta di paradosso.
Ho chiesto alla persona più vicina al movimento Maga cosa ne pensasse e mi ha risposto che J. D. Vance per lui era un handicap per il ticket elettorale. Quindi non è una figura popolare.
Per rispondere alla tua domanda, verrebbe da pensare che siamo di fronte a un disturbo di personalità multipla. È quanto sostenuto da Michelle Goldman in un editoriale del “New York Times”: sai, lui ha avuto molte figure paterne, perché la madre aveva diversi compagni, e anche nel libro racconta di come cercasse di imitare e compiacere ciascuno di loro. Per cui quando sua madre stava con un artista, lui si era fatto un piercing all’orecchio; poi però la madre si era messa con un poliziotto, e allora l’orecchino era diventato una cosa da femminucce… è una persona che ha dovuto reinventarsi una dozzina di volte, e mi chiedo se tutto questo non l’abbia influenzato.
Comunque oggi occupa una posizione di enorme potere e ha una visione che si adatta molto bene al programma conservatore noto come Project 2025.
In particolare, la sua visione delle donne ci fa tornare indietro di un secolo. Vuole abolire il diritto all’aborto; vuole che le donne facciano molti figli, in particolare le donne bianche, e siccome bisogna iniziare presto, non si può pensare troppo alla carriera. Al contempo è a favore della riduzione dei servizi e degli aiuti agli studenti.
Per assurdo sembra proporre alle donne il modello di vita di sua madre: una donna povera che non aveva opportunità, che ha avuto un bambino precocemente...
Tutti noi conviviamo con dei paradossi, ma questo è davvero enorme, e pericoloso.
Vorrei farle un’ultima domanda, che riguarda il suo lavoro di sociologa e intervistatrice. Qual è stato l’incontro più difficile che ha avuto in Kentucky?
C’è stato un uomo con cui non sono mai riuscita a sedermi e chiacchierare davvero in tranquillità; abbiamo fatto una serie di Zoom, e dopo un po’ si è allontanato da me senza che io capissi perché. Per scrivere questo articolo per il “Wall Street Journal”, l’ho ricontattato per chiedergli il permesso di citarlo. Me l’ha accordato, ma sentivo che in qualche modo non si fidava di me. Allora mi sono messa a riguardare le cinque interviste che avevo fatto con lui, tutte trascritte, e ho visto che non avevo fatto un buon lavoro, al contrario! Non avevo fatto quello sforzo, anche emotivo, che serve per mettermi da parte e lasciare spazio all’altro. Non è che gli avessi detto: “Ma come si fa a credere a x e y!?”, ma l’avevo quasi martellato su alcuni punti. Potevo ben capire perché non gli era piaciuto.
Così gli ho scritto: “Ho riletto le interviste che ho fatto con lei e penso di aver fatto un lavoro pessimo. Mi rendo conto di aver insistito su certe questioni, senza darci davvero la possibilità di conoscerci. Volevo solo farle sapere questo. Riconosco di aver perso un’occasione. Le auguro il meglio, Arley” Il giorno dopo ricevo un’email: “Beh, sono qui, parliamone”.
È così che funziona con le persone.
Mi aspettavo che rispondesse che l’incontro più faticoso fosse stato quello con Matthew Heimbach, l’esponente di movimenti suprematisti bianchi e organizzatore di marce dell’estrema destra.
Ma Matthew Heimbach voleva parlare, in realtà! Ancora oggi mi contatta. Tra l’altro, dicendomi ogni volta: “Quanto sono entusiasta! Abbiamo vinto!”. Cioè, noi, il partito neonazista, e i nazionalisti bianchi. Mi ha raccontato: “Io ora ne sono fuori, aspetto il mio terzo figlio; ristrutturo case; sono anche in un comitato della mia chiesa cattolica per ripavimentare il vialetto. Sono fuori dalla politica”. Aggiungendo: “Ma sono felice che Trump sia lì e che abbiamo vinto”. Ha detto proprio: “Abbiamo vinto”.
(a cura di Barbara Bertoncin)
Può raccontarci com’è iniziata questa ricerca, com’è arrivata a Pikeville?
Da tempo sono preoccupata e al contempo affascinata dall’ascesa della destra negli Stati Uniti.
Nel 2016 ho scritto un libro incentrato su una regione degli Stati Uniti profondamente di destra, il Sud, la Louisiana, dove il Tea Party, un precursore del movimento Maga, era molto forte. Lì ho imparato che le cose che Donald Trump offriva alle persone facevano risuonare in loro qualcosa, incontrando un terreno emotivo fertile, sopratutto tra quelle che sentivano di aver perso qualcosa.
A quel punto volevo andare più a fondo e capire le modalità di reazione alla perdita, le sue ripercussioni sul senso di vergogna e di orgoglio e, infine, come questo predisponesse al messaggio di Donald Trump.
Volevo andare oltre e ho scelto un’altra area del Paese, il Kentucky orientale, il Kentucky 5, che è la regione più bianca e la seconda più povera del Paese.
Anche se poi ho scoperto che non era propriamente questo l’aspetto importante: non è che fosse un’area povera e bianca di per sé, bensì che sentiva di aver perso quello che aveva. L’elemento della perdita si è rivelato più importante rispetto alle caratteristiche del contesto. Quindi gli abitanti erano bianchi, ma avevano perso i vantaggi dell’essere bianchi.
Addentrandomi in questa microstoria, una storia minore e locale, ho scoperto che i posti di lavoro nel settore del carbone erano via via scomparsi, contestualmente era arrivata la terribile crisi degli oppiacei. Quindi perdita e dolore. Ma questo rispecchia una storia nazionale per il 42% degli americani, che sono bianchi e senza una laurea, i cosiddetti colletti blu. Questo gruppo, lasciatemelo dire, ha subìto delle perdite importanti negli ultimi tre decenni. I loro posti di lavoro nel settore manifatturiero, un tempo ben retribuiti, sono stati delocalizzati o automatizzati. Quindi si sono visti costretti ad accettare -come dicono loro- “lavori da donna”, cioè mansioni legate ai servizi e poco retribuite. Ora, quando c’è una perdita economica, subentra anche una ricaduta sociale. Sappiamo che sempre più persone vivono da sole, che le famiglie vengono sconvolte, peggiora la salute fisica, ci sono crescenti problemi di obesità. E gli uomini, soprattutto quelli bianchi e senza laurea, sono più soggetti di altri gruppi a quelle che vengono chiamate “morti di disperazione”, per alcolismo, tossicodipendenza e suicidio. Questo è un dato nuovo. Non è sempre stato così.
Quindi la perdita di cui parliamo è assoluta, ma anche relativa, per esempio rispetto ad altri bianchi che hanno una laurea e che vivono in città e Stati blu. È relativa anche rispetto ai neri che, partendo da un livello molto più basso, a causa della discriminazione, stanno comunque meglio di prima.
La mia ricerca aveva come obiettivo quello di capire come le persone si sentono al riguardo, come affrontano questa situazione. Senza dilungarmi troppo, uno dei temi cruciali è che questa perdita provoca un senso di vergogna, tanto più grave in un popolo molto orgoglioso e molto centrato sull’individuo: “Accidenti, ma cosa ho fatto per rimanere disoccupato, per guadagnare così poco? Per essere un tale fallimento?”.
Quello che io sostengo è che questa è una vergogna strutturale, che tuttavia rende le persone particolarmente predisposte e sensibili a chi fa appello a quel senso di mortificazione. Credo che il successo di Donald Trump, che è un leader carismatico, venga da qui: la sua capacità di conquistare la devozione di queste persone sta proprio nella sua abilità nel fare breccia su questo disagio attraverso quelli che ho definito dei rituali anti-vergogna, di riscatto simbolico.
Ma mi chiedevi anche come sono arrivata a Pikeville. È una storia curiosa. Dopo il lavoro sulla Louisiana, a un certo punto ho ricevuto una telefonata da un deputato democratico qui in California che mi ha detto: “Salve, sono il deputato Ro Khanna. Rappresento la Silicon Valley. Sono democratico. Sono una persona di colore. Molti dei miei elettori sono persone di colore”. Tra me e me intanto pensavo: perché mi sta chiamando? E aggiunge: “Ti cerco perché ho attraversato il corridoio e ho trovato un accordo con Hal Rogers, un deputato repubblicano che rappresenta i minatori di carbone disoccupati nel Kentucky orientale. Voglio lavorare a un programma di addestramento sul coding, grazie al quale dopo sei mesi una persona è in grado di programmare, di scrivere codice per i cellulari. È un lavoro ben pagato. Invece di esternalizzare questo tipo di lavori a Bangalore, in India, vorremmo che queste mansioni venissero reinternalizzate e affidate ai minatori disoccupati del Kentucky orientale. Ti può interessare questa storia?”. Ho risposto: “Quando posso venire?”. Finalmente c’era una buona notizia!
A Pikeville ha raccolto tante storie, com’è riuscita a conquistare la fiducia delle persone con cui ha parlato?
La prima persona che ho incontrato e che mi ha accompagnato nella ricerca è stata una giovane donna che è presente nel libro. Aveva svolto una serie di lavori a basso salario. Era disperata. Aveva lavorato in una stazione della metropolitana per assemblare panini. Aveva fatto il turno di notte in un motel guadagnando pochissimo. Era quindi entusiasta di questo programma.
L’avevo conosciuta a Louisville, dove era una studentessa. Quando ho saputo che viveva a Prestonsburg, nel Kentucky orientale, le ho detto: “Posso venire con te?”.
Come ho fatto a conquistare la sua fiducia? Devo dire che con lei non è stato affatto difficile e siamo infine diventate amiche. Altri mi hanno accolto con un po’ più di diffidenza, ma, sapete, avere i capelli grigi aiuta. Mi chiedevano che ci facessi lì, raccontavo di essere una professoressa in pensione, spiegando: “Sono preoccupata per la grande frattura che c’è nel nostro Paese”. E loro: “Beh, anche noi siamo preoccupati per questo”. E quindi cominciavamo a parlarne. A volte erano incuriositi dal mio cognome, Hochschild, allora raccontavo di mio marito, scherzandoci su (“ho sposato l’uomo più dolce e gentile che abbia mai conosciuto, ma quel cognome... tutte consonanti?!”) poi di mia nonna, cresciuta in una piccola azienda lattiero-casearia nel Maine rurale. Mio padre era un avvocato di Boston, aveva fatto carriera, ma aveva mantenuto l’accento regionale.
Quando condividi le storie a un certo punto succede qualcosa. Ricordo un uomo che, dopo avermi ascoltato, mi ha detto: “Sa, noi del Kentucky orientale veniamo sempre presi in giro per il nostro accento”. Gli ho detto: “Anche mio padre pronunciava sempre il mio nome con l’accento di Boston”. E lui: “Che sia benedetto”. Insomma, se ti metti nella giusta disposizione, anche di gratitudine per l’incontro, se disattivi il tuo sistema di allarme morale e ti metti in un atteggiamento di ascolto e non di sfida… beh, posso dire con certezza che se un colloquio non va bene, è colpa mia.
Quello che ho imparato fin dai primi incontri è che ci sono tanti costruttori di ponti sia dalla loro parte che dalla nostra ed è una grande emozione incontrarli.
Il mio messaggio, la lezione da trarre è che dobbiamo imparare ad ascoltare. Temo che non lo sappiamo più fare. Bisogna abbattere una piccola barriera culturale.
Comunque, onestamente, non ho incontrato difficoltà a parlare con queste persone. Sono anzi desiderosi di essere compresi. Con molti siamo ancora in contatto.
Lei afferma che i democratici liberali paradossalmente sono più propensi dei repubblicani conservatori a interrompere una conversazione quando emergono opinioni divergenti.
Sì, a sinistra diciamo di voler rivolgerci agli altri, ma non sappiamo come farlo e non diamo neanche valore a questi tentativi. Invece avremmo un disperato bisogno di azioni come queste.
L’altro dato, che fa il paio con quello che dicevi, è che i conservatori hanno necessità, per così dire, di abbassare la temperatura quando si discute di politica e di riportare la conversazione a un’interazione vis-a-vis con una persona. È in questo modo che imparano a fidarsi.
Quindi ciò che la sinistra non sta facendo è proprio la cosa di cui la destra avrebbe bisogno.
Alcuni suoi intervistati lamentano di risultare “invisibili” per entrambi i partiti. Accanto ai concetti di perdita e vergogna, in tante storie emerge anche la necessità di sentirsi utili per recuperare un senso di dignità...
Per me è stato interessante anche studiare le diverse culture dell’orgoglio. Negli Stati Uniti vige una cultura dell’orgoglio altamente individualista. Proprio oggi qualcuno mi ha inviato per email una poesia di W. H. Auden in cui parla dell’essere povero. In Inghilterra se uno è povero è perché i suoi genitori erano poveri. Negli Stati Uniti se sei povero, sei pigro. Insomma, è colpa tua. È interessante. In realtà le cose non stanno evidentemente così: se la tua fabbrica va offshore? E se vivi in una regione rurale senza opportunità?
Quello che lega il fallimento alla pigrizia è un modo di interpretare le cose molto individualista, molto americano e molto, si può dire, consono a un sistema capitalista. Ma questo è stato discusso da Alexis de Tocqueville molto prima che il capitalismo prendesse piede. Questo per ribadire che la cultura conta molto. Non è solo quello che ti succede, ma il suo impatto sulla tua autostima, sulla tua capacità di sentirti un essere umano degno.
Come si inserisce Trump in questa dinamica che lei ha definito dell’orgoglio rubato, in cui il senso di vergogna porta a cercare dei capri espiatori?
Vorrei dire alcune cose preliminari. Credo che Trump abbia effettivamente vissuto il senso di vergogna come figlio di un padre molto severo. Questa sua personale vicenda di avversione alla vergogna verosimilmente l’ha reso estremamente sensibile a questo sentimento. Teniamo presente che vergogna non è una parola che si senta pronunciare frequentemente da politici e giornalisti.
È una sorta di strato invisibile della realtà che è stato legato all’ideologia di destra nel corso della storia.
Le persone che ho conosciuto nel Kentucky orientale hanno subìto molte perdite ed è vero che nessuno dei due partiti ha offerto loro una via d’uscita, né i Democratici, né i Repubblicani. Il loro grido di dolore rimaneva inascoltato. Da questo punto di vista, il terreno era già stato preparato perché la gente cercasse un leader carismatico che potesse condurli fuori dal deserto. Credo che Donald Trump abbia fatto proprio questo, facendo appello al loro desiderio di alleviare il dolore della vergogna.
A nessuno piace sentirsi mortificato, umiliato. La vergogna è la pelle del nostro sé più profondo, ha a che fare con la percezione che abbiamo dello sguardo altrui su di noi. È diverso dal senso di colpa, che riguarda una relazione interiore. Si tratta qui di un rapporto tra noi e il mondo sociale fuori di noi: ci sentiamo accolti, respinti? È questa cosa qui. E noi proviamo sentimenti profondi al riguardo. Tutti noi, ma soprattutto coloro che sono stati feriti nell’orgoglio. È uno stato d’animo che suscita confusione e angoscia.
Donald Trump, a mio avviso, ha avocato tutto questo in modo molto brillante e sottotraccia.
Io scrivo i miei libri anche per renderci “bilingui”, in modo da poter andare oltre la superficie e ascoltare ciò che viene detto in politica o sul lavoro o nella vita familiare, non solo dal punto di vista razionale, ma anche emotivamente. Perché c’è una logica anche nella conversazione emotiva che si svolge. Credo che molte persone non si stiano sintonizzando su questa logica, per cui non comprendono appieno la situazione in cui ci troviamo.
Allora, qual è la conversazione emotiva segreta, la conversazione senza parole che si svolge quando Donald Trump parla a queste persone? Io credo di aver individuato quattro momenti. All’inizio, Trump dice qualcosa di trasgressivo: “Gli immigrati haitiani mangiano i vostri cani e gatti domestici”. È un’affermazione sconvolgente. In un secondo momento, l’opinione pubblica liberal infama Trump per aver detto una cosa così scioccante e falsa: “Non si possono ripetere i pettegolezzi riportati da una donna, non è vero… questi haitiani sono esseri umani”.
Terzo momento: Trump si pone come vittima di questi denigratori: “Guardate come se la prendono con me. Cercano sempre di mettermi in difficoltà. Mi danno del bugiardo… Non è la stessa cosa che succede a voi? Non è terribile sentirsi messi alla berlina e criticati quotidianamente? Io mi farò carico anche della vostra vergogna”. La sinistra dice: “Ma di che cosa sta parlando?”. Perché non capiscono che il punto più importante è quello che sottintende: “Stanno facendo a me quello che vogliono fare a voi. Voi non piacete ai liberal, vi guardano dall’alto in basso. Ora di questo mi occupo io; è una cosa che fa male, ma sarò io a farmene carico per voi”.
Questo è il terzo momento. A cui segue il quarto, che è una specie di rivalsa: “Ora siamo noi al potere. Possiamo finalmente vendicarci del deep state, del Partito democratico…” e di tutta la lista dei vari nemici, da Joe Biden a Barack Obama, a Hillary Clinton e altri.
Ora, quello che penso stia accadendo è che, tornando alla divisione in America, la metà democratica stia ascoltando il primo e il secondo momento, cioè l’affermazione trasgressiva e la sua condanna, e la metà repubblicana il terzo momento e il quarto, cioè il vittimismo a cui segue il riscatto, la vendetta.
Questo rituale dei quattro momenti non è una cosa del passato, continua a svolgersi ogni mese, ogni settimana, pressoché ogni giorno, seppure in modi diversi. Questa dinamica libera il sentimento di vergogna e lo trasforma nella colpevolizzazione di qualcun altro e quindi nel desiderio di punizione.
Ho cercato di indagare tutto questo parlando con alcune persone arrabbiate e provando, per così dire, a risalire la corrente. “Cos’è che la fa arrabbiare? Possiamo approfondire quello che le è successo?”. Un uomo mi ha parlato di Donald Trump come di un “lightning in a jar” (lett. “fulmine in barattolo”, Ndr), di un evento straordinario. Allora gli ho chiesto di parlarmi di questo fulmine. E poi ho condiviso con lui questa mia idea di quello che ho definito “un rituale in quattro momenti contro la vergogna” e lui si è messo a ridere e ha detto: “È proprio così!”. Un altro uomo ha commentato: “Certo, e i liberal ci cascano ogni volta: lui dice qualcosa di trasgressivo e loro subito gli vanno dietro e così fanno i media, che sulle polemiche fanno soldi”.
Ho chiesto: “Quindi credete che Donald Trump provochi intenzionalmente la sinistra in modo che scatti il meccanismo dei quattro momenti?”. Mi è stato risposto molto semplicemente: “Sì”.
Insomma, quello che sto raccontando non è un mistero. Quando ne parlo, tutti riconoscono che è proprio così. Da questo punto di vista forse questo libro svela un piccolo tabù, che è venuto il tempo di affrontare.
Venendo agli eventi di queste ultime settimane, ha avuto modo di parlare con le persone di Pikeville?
Recentemente ho scritto un articolo per il “Wall Street Journal” proprio su come Trump si sta rivolgendo alla sua base elettorale, ora che le cose in questo Paese diventano quasi ogni giorno più estreme. Ho quindi intervistato nuovamente le persone di Stolen Pride. In quella regione, il 45% delle persone non ha votato. Tra coloro che hanno votato, il 20% lo ha fatto per Kamala Harris, il rimanente 80% per Donald Trump. Per loro non c’era nessuno, nel
ticket democratico, che lo eguagliasse in energia e capacità di creare sintonia. Non mi sorprende che abbiano scelto lui. Non c’era nessun altro per cui votare, secondo loro. I Democratici dicevano: “Biden ha approvato molte proposte di legge che porteranno soldi nelle tasche dei lavoratori e nuovi posti di lavoro negli Stati rossi”. Ma loro non hanno visto niente di tutto questo e poi non hanno visto alcun emissario. Invece, diverse delegazioni repubblicane sono andate in quel distretto e le persone si sono sentite viste e ascoltate.
Ho interrogato i miei interlocutori prevalentemente su due cose per capire cosa sta succedendo. All’interno di quell’80% ci sono due gruppi di persone: una parte crede che Trump non possa sbagliare, punto. L’altra ha votato per lui con un atteggiamento all’insegna dell’“aspettiamo e vediamo”.
La domanda che avevo in testa era: c’è un punto di svolta, una soglia oltre la quale la legittimità di questo leader potrebbe essere messa in discussione? Perché ha il potere, ma la legittimità è un’altra cosa. Ho dunque chiesto loro cosa pensassero della deportazione di Abrego Garcia in un carcere di massima sicurezza di El Salvador. Secondo il “New York Times” si è trattato di un incidente amministrativo, un atto incostituzionale che dovrebbe costringere a rimpatriare quella persona. I seguaci di Trump del primo tipo mi hanno risposto che il governo ha fatto bene perché è un membro dell’Ms 13, un criminale, ecc.
Mi dispiace dirlo, ma non ho visto emergere un possibile punto di svolta in questa regione tra i sostenitori di Trump rispetto alle forzature istituzionali e ai rischi per la democrazia. Non ho sentito dire da nessuno che la detenzione è ingiusta e che quella persona ha comunque dei diritti, come tutti noi. Salvo forse in un caso. Ho incontrato un uomo, figlio di un minatore. Imparo sempre tanto attraverso le storie personali. Quest’uomo è un battista della Chiesa di Cristo di Little Beaver a Elkhorn, nel Kentucky, una piccola località rurale. È stato nell’esercito e mi ha detto: “Ho visto cose che non posso dimenticare”. Per un certo periodo si è interessato molto a Qanon. Ha votato per Donald Trump. Quindi, sempre nella mia testa, l’avevo inserito nella categoria degli estremisti.
Era nella “factosfera” di quelli di destra, ascoltava quelle notizie... Invece mi ha detto: “Beh, sì, potrebbe non essere americano e, sì, può essere un criminale, ma non possiamo essere ridotti al nostro atto peggiore. Ha una famiglia. Dovrebbe trovarsi un lavoro…”. Insomma, sorprendentemente gli dispiaceva, si era come identificato con quest’uomo. Non ha detto: “È un nemico del popolo, portatelo via, toglietegli i diritti”.
Quindi ci sono persone che ascoltano i fatti propagandati dalla destra, ma ragionano con la loro testa, spesso in modo più empatico. Infine, ci sono ovviamente le persone che dicono: “No, ci stanno mentendo. Non è vero. Ho altre fonti di notizie e sulla base di ciò che so e di ciò che credo, questo è fascismo. È un momento spaventoso nella storia del nostro Paese. Garcia è stato il primo ma, ricordiamoci la lezione del ‘Prima vennero a prendere gli immigrati… poi vennero a prendere me’”.
Ovviamente la sinistra guarda a questo scenario con terrore e allarme. La destra, che dire? Nei miei interlocutori ho cercato di intuire se c’era una qualche preoccupazione su questo, ma in effetti non ho avvertito questo sentimento nel distretto Kentucky 5. Comunque questo è il punto di svolta numero uno e riguarda la difesa dei diritti umani, il sistema di pesi e contrappesi, il potere della Corte, ecc.
L’altro possibile punto di svolta è un peggioramento della situazione economica. Qui come sono state le risposte?
Qui vedo delle possibili crepe, perché alla gente è stato detto che si trattava di rendere l’America di nuovo grande, di far tornare le opportunità. Invece sembra che quello che dovranno affrontare è un aumento dei prezzi dei beni fondamentali, dal costo dell’auto per andare al lavoro, al prezzo del latte, delle uova, della benzina. I prezzi potrebbero presto aumentare a causa di questa guerra tariffaria. Al contempo, i servizi potrebbero essere tagliati perché Elon Musk con la sua motosega ha definito la Sicurezza Sociale uno schema Ponzi, se l’è presa con Medicaid: “Queste persone dovrebbero andare a lavorare!”. Ha avviato tagli a servizi da cui queste persone dipendono: il 45% degli abitanti del Kentucky beneficia di Medicaid! La maggior parte dei bambini della regione riceve i buoni pasto.
Quindi penso che il punto di svolta numero due, quello economico, sia quello che più facilmente porterà a una perdita di fiducia in questa leadership. Voglio dire che, se questo sistema va in crisi, molte persone probabilmente cambieranno idea su Donald Trump, soprattutto se si vedranno ricacciati in quella povertà per fuggire dalla quale tanto hanno lottato.
Rispetto al dibattito interno tra i Democratici? Non c’è il rischio che Trump, per certi versi, stia andando così male da esonerarli da una seria autocritica?
È una delle cose che oggi mi preoccupa; potrebbe essere il mio prossimo progetto.
Il libro scritto da Vance è a tratti illuminante, non solo per le cose che fa capire ma anche per un taglio autocritico verso i suoi. È difficile pensare che la persona che era nella sala ovale con Zelensky abbia scritto quel libro.
La città in cui trascorreva le estati con la nonna e la madre dista solo due ore di macchina da Pikeville. Devo dire che la gente di Pikeville, che pure ha votato per Donald Trump, non ama J. D. Vance perché si sente in qualche modo messa da parte, li ho sentiti dire: “Non gli piacciamo…”.
In queste aree le persone si dividono tra chi rimane e chi se ne va, e lui se n’è andato, ha abbandonato il suo paese e guarda a chi è rimasto con disprezzo. Quindi questa gente si sente respinta e ripudiata da lui, cosa che non sentono con Donald Trump. È una sorta di paradosso.
Ho chiesto alla persona più vicina al movimento Maga cosa ne pensasse e mi ha risposto che J. D. Vance per lui era un handicap per il ticket elettorale. Quindi non è una figura popolare.
Per rispondere alla tua domanda, verrebbe da pensare che siamo di fronte a un disturbo di personalità multipla. È quanto sostenuto da Michelle Goldman in un editoriale del “New York Times”: sai, lui ha avuto molte figure paterne, perché la madre aveva diversi compagni, e anche nel libro racconta di come cercasse di imitare e compiacere ciascuno di loro. Per cui quando sua madre stava con un artista, lui si era fatto un piercing all’orecchio; poi però la madre si era messa con un poliziotto, e allora l’orecchino era diventato una cosa da femminucce… è una persona che ha dovuto reinventarsi una dozzina di volte, e mi chiedo se tutto questo non l’abbia influenzato.
Comunque oggi occupa una posizione di enorme potere e ha una visione che si adatta molto bene al programma conservatore noto come Project 2025.
In particolare, la sua visione delle donne ci fa tornare indietro di un secolo. Vuole abolire il diritto all’aborto; vuole che le donne facciano molti figli, in particolare le donne bianche, e siccome bisogna iniziare presto, non si può pensare troppo alla carriera. Al contempo è a favore della riduzione dei servizi e degli aiuti agli studenti.
Per assurdo sembra proporre alle donne il modello di vita di sua madre: una donna povera che non aveva opportunità, che ha avuto un bambino precocemente...
Tutti noi conviviamo con dei paradossi, ma questo è davvero enorme, e pericoloso.
Vorrei farle un’ultima domanda, che riguarda il suo lavoro di sociologa e intervistatrice. Qual è stato l’incontro più difficile che ha avuto in Kentucky?
C’è stato un uomo con cui non sono mai riuscita a sedermi e chiacchierare davvero in tranquillità; abbiamo fatto una serie di Zoom, e dopo un po’ si è allontanato da me senza che io capissi perché. Per scrivere questo articolo per il “Wall Street Journal”, l’ho ricontattato per chiedergli il permesso di citarlo. Me l’ha accordato, ma sentivo che in qualche modo non si fidava di me. Allora mi sono messa a riguardare le cinque interviste che avevo fatto con lui, tutte trascritte, e ho visto che non avevo fatto un buon lavoro, al contrario! Non avevo fatto quello sforzo, anche emotivo, che serve per mettermi da parte e lasciare spazio all’altro. Non è che gli avessi detto: “Ma come si fa a credere a x e y!?”, ma l’avevo quasi martellato su alcuni punti. Potevo ben capire perché non gli era piaciuto.
Così gli ho scritto: “Ho riletto le interviste che ho fatto con lei e penso di aver fatto un lavoro pessimo. Mi rendo conto di aver insistito su certe questioni, senza darci davvero la possibilità di conoscerci. Volevo solo farle sapere questo. Riconosco di aver perso un’occasione. Le auguro il meglio, Arley” Il giorno dopo ricevo un’email: “Beh, sono qui, parliamone”.
È così che funziona con le persone.
Mi aspettavo che rispondesse che l’incontro più faticoso fosse stato quello con Matthew Heimbach, l’esponente di movimenti suprematisti bianchi e organizzatore di marce dell’estrema destra.
Ma Matthew Heimbach voleva parlare, in realtà! Ancora oggi mi contatta. Tra l’altro, dicendomi ogni volta: “Quanto sono entusiasta! Abbiamo vinto!”. Cioè, noi, il partito neonazista, e i nazionalisti bianchi. Mi ha raccontato: “Io ora ne sono fuori, aspetto il mio terzo figlio; ristrutturo case; sono anche in un comitato della mia chiesa cattolica per ripavimentare il vialetto. Sono fuori dalla politica”. Aggiungendo: “Ma sono felice che Trump sia lì e che abbiamo vinto”. Ha detto proprio: “Abbiamo vinto”.
(a cura di Barbara Bertoncin)
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