Orville Schell, direttore del Centro per le relazioni Usa-Cina dell’Asia Society e storico cronista sinologo, ha seguito da vicino lo sviluppo del paese sin dai tempi di Mao Tse Tung.
Ogni giorno sembra portare nuovi sviluppi che preannunciano una spirale discendente nelle relazioni Usa-Cina
Sì. E a rendere le cose ancora più complicate c’è il fatto che Xi Jinping è appena tornato da una visita di stato ufficiale di tre giorni a Mosca, dove ha incontrato il presidente Vladimir Putin e altri alti funzionari russi. Come ha affermato il massimo diplomatico di Pechino Wang Yi, l’obiettivo della Cina è “rafforzare la nostra partnership strategica globale” con modalità che possano “superare tutti i test”.
Quindi, ovviamente, gli Stati Uniti e i loro alleati democratici si sentono minacciati, e non solo dalla bellicosità di Russia e Cina, ma anche dall’empia alleanza di autocrati -Iran, Siria, Bielorussia e Corea del Nord- che stanno formando. Non sorprende che gli Stati Uniti e i loro alleati si stiano mobilitando attivamente per creare un deterrente collettivo più efficace che faccia sentire la Russia ancora più disprezzata e respinta, e la Cina ancora più minacciata da quella che considera una politica di contenimento immotivata.
All’inizio di quest’anno, proprio mentre il Segretario di Stato americano Antony Blinken si stava preparando a incontrare il suo omologo, Wang Yi, per porre un limite all’inasprirsi delle tensioni, un enorme pallone-spia cinese è apparso sopra l’Alaska e Blinken ha annullato il suo viaggio. È stata un’occasione persa per cercare di stabilizzare il rapporto bilaterale. Da allora, la sfiducia reciproca è aumentata quasi quotidianamente. Ora, con la Cina sempre più vicina alla Russia, il mondo si sta dividendo rapidamente in due blocchi ideologici sempre più ostili.
Mentre la Russia continua ad attaccare i civili in Ucraina, il Cremlino ha ospitato una sfilata di sgradevoli autocrati, dal presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko al direttore della Commissione per gli affari esteri del Comitato centrale per il Partito comunista cinese (Pcc) e, ora, il presidente cinese Xi Jinping stesso. Per eliminare ogni dubbio sulla posizione della Cina, il 6 marzo Xi ha pubblicamente attaccato gli Stati Uniti facendo delle dichiarazioni davanti al Congresso nazionale del popolo cinese: “I paesi occidentali guidati dagli Stati Uniti hanno messo in atto il contenimento, l’accerchiamento e la repressione della Cina”. È la prima volta che chiama espressamente in causa gli Stati Uniti.
Dal canto suo, il nuovo ministro degli Esteri cinese, Qin Gang, ha reso ancor più tesa l’atmosfera accusando gli Stati Uniti di un “neo-maccartismo isterico” che spinge i due paesi sulla strada del “conflitto e dello scontro”. Infine, quando Xi è stato consacrato con un terzo mandato il 10 marzo, Putin lo ha elogiato per il suo “contributo personale” al rafforzamento del “partenariato globale” dei paesi. Putin ora attende con impazienza una “cooperazione russo-cinese ancora più fruttuosa”.
In poche parole, ci stiamo muovendo irrevocabilmente verso ostilità più profonde. Con l’emergere di nuovi blocchi post-Guerra fredda è sempre più difficile capire come andrà a finire.
L’accelerazione di questa spirale risale alla fine dello scorso anno, più o meno nello stesso periodo in cui Xi ha invertito la sua politica “zero-Covid” dall’oggi al domani. Cosa è successo?
Anche questo è stato un fatto senza precedenti, quasi inimmaginabile per quelli di noi che seguono da tempo la Cina. Dopo i tanti anni di leadership centralizzata di Xi e il suo successo nel rilanciare il Partito comunista cinese come forza e rete onnipervasiva in tutta la Cina, siamo abituati a vedere ogni tipo di dissenso immediatamente soffocato. La paura di Xi per una pandemia incontrollabile (e il possesso da parte della Cina di vaccini solo moderatamente efficaci) lo ha portato a sostenere la sua draconiana politica zero-Covid, imponendo lockdown in qualsiasi città, fabbrica o paese che mostrasse i minimi segni di contagio.
Ma poi sono scoppiate inedite manifestazioni contro quei controlli e ben presto le proteste si sono allargate e hanno acquisito una valenza più politica, con alcuni manifestanti che hanno addirittura attaccato il Partito e lo Stato. Questo ha concesso al mondo esterno di dare una sbirciatina a ciò che si nasconde sotto la superficie ben curata del discorso pubblico cinese. Benché non sempre visibile, c’è una buona dose di sentimento critico soffocato.
Xi aveva davvero paura del Covid-19 o la pandemia è stata più un pretesto per rafforzare il controllo sulla società?
Xi ha usato abilmente la pandemia per testare e implementare nuovi tipi di sorveglianza e controllo. La vera domanda, quindi, è: “Perché è così fissato con il controllo?”.
È una figura un po’ anomala e sorprendente come leader cinese moderno. Suo padre e la sua famiglia sono stati perseguitati durante la Rivoluzione culturale e lui stesso è stato mandato via per sette anni in una parte molto povera del paese. Nonostante ciò, Xi si è abbeverato alla stessa fonte politica della Rivoluzione culturale di Mao durante gli anni Sessanta e Settanta. È stato durante gli anni della formazione che ha acquisito il kit di strumenti che avrebbe usato in seguito, prima quando è diventato leader provinciale e poi come leader supremo della Repubblica popolare cinese (Rpc). A differenza di molti altri leader cinesi che hanno trascorso un po’ di tempo all’estero, in Russia, Europa o altrove, Xi, come Mao, non ha mai lasciato la Cina per un periodo di tempo significativo. È stato durante la Rivoluzione culturale che ha imparato a sopravvivere nel mondo maoista, a lottare e a vincere. E ora, dopo tutti i decenni di riforme e aperture sotto Deng Xiaoping, troviamo uno Xi che riporta la Cina indietro, verso una politica più maoista che repubblicana. È come assistere alla ricomparsa di un gene leninista recessivo che pensavamo non si sarebbe mai più espresso nella politica cinese. Convinto che la Cina sia in una relazione politica fondamentalmente ostile con gli Stati Uniti e l’Occidente, Xi è deciso a promuovere l’autosufficienza, tornando persino a uno stato che ricorda in qualche modo l’autarchia maoista.
È svanita la speranza che la Cina possa diventare uno stakeholder globale responsabile tramite “engagement”. Xi aveva altre idee e ora stiamo assistendo a divergenze invece che a convergenze.
Perché ha posto fine alla politica zero-Covid?
All’inizio sembrava che Xi stesse avendo successo nella sua lotta contro il Covid-19. La Cina sembrava fare meglio dell’Occidente, sia in termini di contagi che di economia. Le autorità hanno isolato le fabbriche, creando di fatto bolle intorno a loro, in modo che i lavoratori potessero continuare a lavorare (senza tornare a casa). I funzionari del Partito hanno monitorato molto attentamente i lavoratori, isolando chiunque fosse infetto e mantenendo in funzione catene di approvvigionamento.
Nel frattempo, noi in Occidente eravamo un po’ allo sbando perché non avevamo una politica così coerente e disciplinata. Ci muovevamo nel buio e molti hanno visto nella nostra risposta alla pandemia un grande caos.
Ora, però, vediamo che la disorganizzazione dell’Occidente alla fine ha permesso di ottenere una maggiore immunità di gregge, quindi di affrontare sia la pandemia che il ritorno alla vita normale in modo meno dirompente.
Alla fine, la storia di successo della sanità pubblica cinese è diventata un fallimento politico. Le persone in tute ignifughe bianche -che testavano tutti e inoculavano alcuni- sono state associate alla polizia e a uno stato oppressivo. Le persone che cercavano di scappare dalle fabbriche, di lasciare le loro case o protestare venivano picchiate. Ma, dopo mesi in cui sono stati tagliati fuori dalle loro famiglie, dai negozi e dalla vita normale, molti altri cinesi hanno iniziato a sfogare la loro rabbia contro lo stato, e questa rabbia per l’eccessiva violenza di Xi ai tempi del Covid ha iniziato a fondersi con altre forme latenti di disaffezione. Dopotutto, Xi aveva anche rafforzato i controlli su università, media, viaggi, cultura e praticamente su ogni altro aspetto della vita.
Per un po’ di tempo, la stessa pandemia gli ha permesso di controllare questo incipiente scontento, sviluppando un sistema di sorveglianza come non si era mai visto prima. Anche se lo zero-Covid è ormai terminato, questi nuovi meccanismi di controllo statale sopravviveranno. In effetti, stanno già inimicandosi alcuni elementi della società.
Ci sono ancora prospettive di collaborazione o coinvolgimento tra la Cina, gli Stati Uniti e l’Europa?
Negli ultimi decenni l’economia globale si è sviluppata molto rapidamente, portando a quello che sembrava un vantaggio per tutti. Il presupposto era che, fintanto che l’“engagement” con la Cina fosse continuato, la Repubblica popolare cinese sarebbe diventata più invischiata nel mercato internazionale e meno in antagonismo con i sistemi politici democratici.
Sapevamo che la Cina non sarebbe cambiata da un giorno all’altro né che sarebbe cambiata completamente. Ma la direzione e il ritmo delle riforme sono stati abbastanza incoraggianti da mantenere viva la proposta globale di “engagement”. Sapevamo che la Cina e l’America sarebbero diventate più interdipendenti; ma non lo abbiamo visto come un pericolo fintanto che la Cina è stata più o meno amichevole, che le filiere di distribuzione hanno funzionato e che il sistema di mercato globalizzato ha continuato ad andare bene.
Alla fine, gli Stati Uniti hanno sviluppato una massiccia dipendenza commerciale dalla Cina, in particolare nella produzione, nelle terre rare, nel polisilicio, nel litio, nel cobalto, in alcuni prodotti farmaceutici e persino in alcuni settori tecnologici. Nel caso dei microchip, che una volta erano progettati e prodotti negli Stati Uniti, abbiamo iniziato a esternalizzare il processo di “fabbricazione” a Taiwan, nella Corea del Sud e persino in Cina. E ciò vale per molti altri beni che potevano essere resi più economici se fabbricati altrove, perché le aziende volevano abbassare i costi e sbarazzarsi di grandi e costose scorte. La conseguenza è che ora dipendiamo profondamente dalla Cina per gli elementi critici nelle nostre filiere.
Ma poi Xi ha cambiato la politica estera cinese adottando un atteggiamento molto aggressivo e prepotente che ha alienato un paese dopo l’altro. È iniziato nel 2017 con la diplomazia punitiva contro la Corea del Sud, in risposta alla sua decisione di ospitare un sistema di difesa missilistica di fabbricazione statunitense (Thaad) per difendersi dalla Corea del Nord.
I funzionari cinesi si sono opposti sulla base del fatto che il sistema poteva essere utilizzato per sorvegliare la Cina, quindi, il governo di Xi ha deciso di punire il suo vicino interrompendo i voli, chiudendo decine di grandi magazzini coreani all’interno della Cina, bloccando il K-pop e altre importazioni culturali e, soprattutto, fermando l’enorme flusso di turisti cinesi verso la Corea del Sud. I coreani sono stati quindi i primi a sperimentare tutta la forza di quella che i cinesi chiamano “diplomazia del guerriero lupo”.
Ci spieghi meglio.
Quando Xi si è convinto che la Cina stava crescendo (e l’Occidente era in declino) -che “il vento dell’est stava prevalendo sul vento dell’ovest”- ha iniziato a farla da padrone, infliggendo agli altri ciò che la Cina stessa aveva sperimentato per mano delle “Grandi Potenze” nei secoli precedenti. Si dà il caso che in Cina fossero usciti due film su un potente guerriero che si rifiutava di tollerare qualsiasi offesa da parte di chiunque, specialmente dagli stranieri. Xi ha abbracciato questa aggressività impenitente come il segno distintivo di un nuovo stile di politica estera che avrebbe dovuto sottolineare la nuova ricchezza e il potere della Cina. Questa nuova posizione ha anche portato il paese a indignarsi per un numero sempre maggiore di dichiarazioni e azioni delle potenze occidentali e di altri paesi, si trattasse di Giappone, Corea del Sud, Australia o India. Se qualcuno di questi governi avesse in qualche modo offeso la Cina, automaticamente sarebbe stato punito. La Cina non si stava più sviluppando sotto l’egida di una “ascesa pacifica”, anzi, la politica estera cinese diventava sempre più martellante, con il potere inteso come la capacità di ritorsione contro coloro che sono percepiti come avversari.
Man mano che un paese dopo l’altro ricevevano un assaggio del trattamento del “guerriero lupo”, i leader politici iniziavano a mettere in discussione la cordialità professata dalla Cina. Dopo la Corea del Sud, il Canada è stato punito per il suo ruolo nella detenzione di Meng Wanzhou, la figlia del fondatore di Huawei, con l’accusa di violazione delle sanzioni contro l’Iran. Per rappresaglia, i cinesi hanno tenuto in carcere due canadesi per quasi tre anni, con false accuse. Poi c’è stata l’Australia, il cui crimine è stato quello di richiedere un’indagine approfondita sulle origini del Covid-19. La Cina ha colpito gli australiani annullando le importazioni di orzo, aragosta, manzo e vino; ha anche attaccato l’India senza una ragione riconoscibile. Sebbene i due paesi non fossero in guerra nell’Himalaya dal 1962, la Cina ha iniziato inspiegabilmente a sfidare i soldati indiani nella regione del Ladakh.
L’India è stata così scoraggiata da questa aggressione che si è unita al Quad, una nuova partnership indo-pacifica con Australia, Giappone e Stati Uniti. La Cina ha anche incautamente allontanato altri paesi come la Svezia, la Repubblica Ceca e la Lituania, e ha imposto sanzioni arbitrarie ai membri del Parlamento europeo, facendo così un affronto a tutta l’Europa. La repressione interna di Xi era speculare a una repressione all’estero.
Non si può chiamarla diplomazia, giusto?
No, non è diplomazia. Ed è stata anche molto controproducente. La Cina si è alienata le simpatie di tanti paesi senza una ragione apparente, al solo scopo di farla da padrone a livello economico e politico. Anche se questa tendenza è precedente all’ascesa di Xi (ricordiamo che quando Liu Xiaobo ricevette il premio Nobel per la pace nel 2010, la Cina annullò le importazioni di salmone dalla Norvegia), Xi l’ha portata a un livello completamente nuovo. Quindi, è diventata anche più belligerante nei mari della Cina meridionale e orientale costruendo e militarizzando isole e rivendicando come propria una delle rotte marittime più trafficate del mondo. L’assalto successivo è stato rivolto a Hong Kong. Violando i termini della consegna del territorio da parte della Gran Bretagna nel 1997, la Cina ha effettivamente posto fine all’autonomia della città e ha calpestato la sua stampa libera, il sistema elettorale, la tutela dei diritti umani e le libertà accademiche.
Quindi, Xi è passato allo Stretto di Taiwan, intensificando la sua retorica bellicosa e proclamando che “quanto prima” Taiwan diventerà parte della Cina. Ha dichiarato che la Cina non eviterà l’uso della forza militare se servisse per la “riunificazione”. Infine, ha continuato a rivendicare varie isole a sud di Okinawa, anche se queste sono amministrate da tempo dal Giappone.
Quindi, abbiamo una moltitudine di rivendicazioni territoriali che coinvolgono diversi paesi, da Giappone, Taiwan e Vietnam a Malesia, Brunei e Filippine. L’approccio della Cina ha portato sempre più politici a Washington, e ora in Europa, a considerare il paese come una forza dirompente e destabilizzante.
Quando e perché l’“ascesa pacifica” della Cina ha lasciato il posto a un crescendo di tensioni?
È cominciata, come facevo notare poco fa, prima che Xi salisse al potere, sotto il precedente segretario generale del Partito comunista cinese, Hu Jintao. Hu è stato colui che ha iniziato a sollevare la questione del Mar cinese meridionale. Ma quando Xi è salito al potere nel 2012-13, è andato avanti e ha militarizzato le isole che la Cina stava costruendo, nonostante avesse promesso al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che non l’avrebbe fatto. E, ancora una volta, è stata l’aggressività di Xi a mettere un paletto nel cuore dell’“engagement” come politica praticabile degli Stati Uniti o dell’Occidente. È stato lui a costringere i governi di tutto il mondo a riflettere sull’eccessiva dipendenza dalla Cina, soprattutto in termini di tecnologia e in altri settori con implicazioni militari. Sempre più paesi si stanno chiedendo se è il caso di affidarsi alla Cina per terre rare, litio, cobalto e alcuni microchip. La risposta è, ovviamente, no.
Questo è il motivo per cui gli Stati Uniti hanno approvato il Chips and Science Act del 2022 e hanno fissato limiti alla vendita di alcuni tipi di proprietà intellettuale, microchip e attrezzature per la fabbricazione di chip alla Cina, oltre a rendere illegale per chiunque abbia un passaporto o una green card statunitense di lavorare per alcune aziende tecnologiche cinesi. Gli strateghi statunitensi temono che la Cina utilizzi la nostra tecnologia e proprietà intellettuale non solo per competere con noi, ma anche per farci la guerra. Purtroppo oggi siamo a questo punto. Il rapporto è ora molto più conflittuale ed è radicato in una divergenza tra sistemi politici fondamentalmente diversi. Ecco perché la prospettiva di un maggiore disaccoppiamento è ora al centro del rapporto tra Cina e Occidente.
Ora che Xi si è assicurato un terzo mandato senza precedenti, secondo lei è consapevole di essersi spinto oltre?
Anche se personalmente penso che Xi si sia spinto oltre, non intravedo segnali sulla sua consapevolezza rispetto al pericolo che sta creando per il suo paese e per il mondo. È come l’eroe di una tragedia greca che soccombe all’arroganza sfrenata. Continuerà a guadagnare potere, proprio come ha fatto Mao.
Mao è stato “presidente” del Partito fino alla sua morte. Ma quando Deng salì al potere nel 1978, evitò quel titolo e stabilì nuove regole per la leadership, prescrivendo che ogni segretario di partito dovesse rimanere in carica per solo due mandati, per un totale di dieci anni. Ma Xi -il primo segretario generale del Partito non nominato da Deng- ha cambiato le regole in modo da potersi garantire più di due mandati, sia come segretario generale del Partito che come presidente e, potenzialmente, governare a vita (il presidente è davvero un titolo usa e getta; il ruolo importante è quello di segretario generale del Partito).
A dire il vero, all’inizio del suo primo mandato (nel 2012), molte persone, me compreso, pensavano che Xi potesse finire per essere un riformatore come Deng, a causa della storia di suo padre come rivoluzionario veterano che era stato perseguitato. Ma non è questo il caso.
Ora che Xi ha il suo terzo mandato, probabilmente si assicurerà anche un quarto mandato. Non si è preoccupato di nominare alcun “successore”, che normalmente viene designato alcuni anni prima della fine del secondo mandato. Questo infatti lo avrebbe reso un’anatra zoppa, il che è inaccettabile per qualcuno per cui il potere è tutto. Poiché Xi vuole evitare di mostrare segni di debolezza, non permetterà a nessun altro di avvicinarsi allo scettro del potere.
Ci sono segni di opposizione interna?
Dunque, la recente “rivoluzione del Libro Bianco” che si oppone alle sue politiche zero-Covid ha rivelato lo scontento per i controlli estremi. Ma, centralizzando il potere nelle sue mani, anche attraverso la campagna contro la corruzione, Xi ha sfoltito così tanto il panorama dei rivali che non ci sono segni evidenti di faziosità della leadership o di opposizione all’interno del Partito stesso. Xi ha usato la Commissione centrale per l’ispezione disciplinare del partito per intimidire i dissidenti e farli tacere.
Il Partito comunista cinese ha quasi cento milioni di membri, ma decine di migliaia di loro sono ora in prigione. Xi ha rinchiuso non solo chi era corrotto, ma anche chi poteva opporsi a lui. Tuttavia, così facendo, si è creato molti nemici e, ovviamente, quei nemici hanno degli amici. Sebbene non abbiano modo di organizzarsi o di esprimersi pubblicamente, c’è certamente del malcontento latente. All’interno di alcuni gruppi c’è un’aperta ostilità nei confronti di Xi.
Come interpreta la scena del XX Congresso del Partito dello scorso autunno, quando Hu è stato scortato in modo piuttosto indecoroso fuori dalla stanza?
Ciò che ha reso questa scena così strana è che non abbiamo mai visto segni così evidenti di disordine, tanto meno opposizione sui giornali o in televisione, in nessun altro Congresso del Partito. Hu -il predecessore di Xi come segretario generale, che ha lasciato il suo incarico in modo ordinato dopo due mandati- doveva essere seduto sul palco in quello che è sempre uno spettacolo accuratamente sceneggiato e altamente irreggimentato. Ma per ragioni che ancora non comprendiamo appieno è stato scortato fuori. Forse soffre di demenza -sembrava piuttosto perso. O forse è stato rimosso perché Xi temeva potesse inscenare una sorta di protesta imbarazzante. Hu ha continuato a cercare di afferrare una cartellina rossa sul palco. Forse Xi temeva che lui vedesse la formazione del Comitato permanente del Politburo e si rendesse conto che tutta la sua gente era stata cacciata. Quello che sappiamo veramente è che è successo qualcosa che non rientrava nella sceneggiatura ufficiale. Per un partito che è sempre stato allergico a tutto ciò che è spontaneo, si è trattato di un momento che ha lasciato di stucco.
Ma erano tutti seduti lì in totale calma…
Temo fossero tutti terrorizzati. Nessuno voleva riconoscere quello che stava succedendo per non commettere lesa maestà davanti a Xi. Ora, se fossi stato Xi, mi sarei alzato in piedi, avrei abbracciato Hu, preso il microfono e detto all’intero gruppo di funzionari-zombi del Partito riuniti: “Ringraziamo il compagno Hu per il suo grande servizio alla nazione. Non si sente bene e ora ha bisogno di riposarsi”. Poi avrebbe potuto farlo accompagnare rispettosamente fuori dalla stanza. E invece no! È stato allontanato in modo indecoroso e i suoi ex colleghi sono rimasti seduti lì come robot inermi. Quel piccolo dramma la dice lunga su come funziona il sistema cinese.
Definirebbe la tecno-autocrazia di Xi un sistema neo-comunista?
È giusto dire che Mao fosse in realtà un “marxista” o una sorta di “comunista”. Credeva nella lotta di classe, nel rovesciamento della borghesia, nella “dittatura del proletariato” e così via. Ma penso che Xi sia un puro leninista. Aspira davvero a ridurre le disuguaglianze nella società cinese; ma il suo vero obiettivo è costruire la ricchezza e il potere dello stato e vede l’organizzazione del Partito come la chiave per raggiungere questo obiettivo. Anche Lenin puntava sul partito.
Dopo che Deng salì al potere alla fine degli anni Settanta, la posizione e il potere del Partito comunista cinese diminuirono gradualmente. Durante gli anni Ottanta, le cellule del Partito furono persino rimosse dalle imprese statali e le imprese private furono lasciate essenzialmente libere dal controllo diretto del Partito. Ma Xi ha ribaltato la situazione, proclamando che “Est e Ovest, Nord e Sud, il Partito guida su tutto”. Ha reinstallato le cellule del Partito non solo nelle imprese statali ma anche in quelle private. E ha ricostruito la struttura del Partito nel modo classico e leninista, vale a dire come un apparato politico altamente disciplinato e ben organizzato che può governare in patria cercando anche di controllare ciò che accade all’estero. Ciò viene fatto attraverso le organizzazioni del Fronte Unito, ampiamente finanziate e organizzate, che ora si dedicano “a raccontare bene la storia della Cina”. A tal fine, si sono appropriati di una massiccia quantità di fondi e di potenza istituzionale per lavorare all’estero attraverso i media, gli istituti Confucio, gli scambi culturali, le università, le organizzazioni della società civile, la filantropia e altri canali, il tutto cercando di influenzare il modo in cui le persone all’estero vedono la Cina.
Quindi per Xi conta ancora ciò che pensano all’estero?
Xi vuole che la Cina sia una superpotenza indipendente, ma vuole anche creare relazioni di dipendenza con alcune compagnie straniere, in modo da poterle usare come leva con i rispettivi governi. Inoltre, ha speso una fortuna per sviluppare la Belt and Road Initiative, che promuove la dipendenza economica dalla Cina tra i paesi in via di sviluppo in modo che votino con la Repubblica popolare cinese alle Nazioni Unite e la sostengano nelle sue miriadi di controversie con i paesi democratici.
Di recente, Xi si è concentrato sulle banche di investimento occidentali, offrendo loro tutti i tipi di nuovi diritti speciali per creare entità finanziarie e strutture di gestione patrimoniale in Cina. Alcune aziende stanno abboccando all’esca, nonostante le relazioni sempre più ostili della Cina con gli Stati Uniti.
La mia opinione è che, che si tratti di Blackstone o Morgan Stanley, saremmo degli illusi a non vedere da che parte soffia il vento. Nonostante la continua dipendenza dalla Cina per molte filiere, non sono in vista legami economici più profondi, perché una tale co-dipendenza ora comporterebbe enormi rischi geopolitici. Difficile immaginare che anche Elon Musk, che ha fatto fortuna in Cina con la sua fabbrica Tesla, possa mantenere questo successo a lungo termine. La Cina ora vuole sviluppare la propria industria dei veicoli elettrici e non vuole più fare affidamento su Musk.
Quindi, il vento soffia sempre più ferocemente nella direzione del disaccoppiamento, anche se questo processo non è né facile né ben accolto. Sì, alcune società statunitensi e straniere, come i sostenitori dell’industria automobilistica tedesca, non si sono ancora riconciliate con la nuova realtà. Gli amministratori delegati non amano contemplare scenari cupi e dirompenti. Ma tutto quello che devono fare è guardare cos’è successo in Ucraina. Se la Cina si muovesse contro Taiwan, le conseguenze negative della guerra nell’Europa orientale sembrerebbero un gioco da ragazzi.
Cosa intende?
Guardate cosa ha fatto Putin per risentimento territoriale. Ha lanciato un’invasione su vasta scala. Se le aziende aspetteranno che la Cina attacchi Taiwan -che si verifichi un qualche incidente militare nel Mar cinese meridionale o un’esplosione di tensioni con il Giappone sulle isole Senkaku- sarà già troppo tardi per escogitare un piano B. Quelle aziende rischiano di perdere tutto. Alcuni leader aziendali non riescono ancora a credere che l’era dell’“engagement” sia finita e che la Cina possa finire in conflitto con gli Stati Uniti. Ma devono svegliarsi. Non sto prevedendo un conflitto, ma una tale previsione sta diventando impossibile da scartare.
(a cura di Irena Grudzinska Gross. Traduzione di Simona Polverino. Copyright: Project Syndicate, 2023. www.project-syndicate.org)
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