Mauro Palma è stato presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti del Consiglio dell’Europa, e ha partecipato agli Stati generali dell’esecuzione penale (2015-16) in qualità di componente del Comitato di esperti. Dal 2016 è Presidente dell’Autorità Garante dei diritti delle persone private della libertà personale.

La cultura come strumento di rieducazione delle persone detenute: partiamo da qui. Ora, a differenza dell’istruzione, e in particolar modo dell’alfabetizzazione, quando si tratta di attività culturali utilizzate nel trattamento penitenziario a me sembra che ci si muova su un terreno scivoloso. Mi riesce difficile scindere l’idea di cultura da quella di libertà, dunque mi sembra inevitabile che si arrivi a una serie di complicazioni quando c’è di mezzo l’istituzione totale.
Parto da quella cultura che molto spesso è presente in atti e circolari del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nei quali gli elementi di apporto culturale vengono interpretati come possibile intrattenimento delle persone detenute. Il carcere non deve intrattenere nessuno. Anche “trattamento”, quasi in un’idea correzionalista della funzione carceraria, è una parola che non mi piace -le persone non devono essere “trattate”-, ma ancor meno mi piace “intrattenimento”. Nelle circolari in cui viene usata questa parola c’è una specificazione tra parentesi in cui si parla di cultura, di sport, di musica. Tutti termini che indicano espressioni della persona e non certo un modo per intrattenerla nel tempo che le è sottratto.
Chiarito questo, vengo a un effetto tipico della privazione della libertà e ancor più di quella privazione della libertà che è motivata da una colpa ed è quindi associata troppo spesso a un’idea di meritevolezza del castigo. Che è in fondo -ma non voglio andare fuori tema- il residuo della spettacolarizzazione del supplizio, messo in luce dal buon Foucault: un esplicito supplizio che si è perso con il passaggio a una sorta di equivalente generale, il tempo sottratto, ma che rimane come una variabile di sfondo. Tot gravità corrisponde a tot tempo sottratto. Allora, questo meccanismo del castigo meritato, che è l’ultima reminiscenza dell’idea dell’infliggere punizione, porta inevitabilmente a una distorsione di tre connotazioni forti del proprio sé. La distruzione del sé corporeo, la distruzione del sé espressivo, la distruzione del sé adulto. In che senso distruzione? Nel senso che il sé corporeo non è solo distrutto dall’essere costretto in un luogo, ma nel modo in cui la persona detenuta percepisce il proprio corpo. Un corpo che non ha possibilità di movimento ed è elemento della punizione ma anche della possibile uscita dalla punizione: in carcere si va dal medico sperando che dica che si sta male, per poter uscire e riconquistare un’apparenza di libertà… Il sé corporeo distrutto è anche il tagliarsi, il cucirsi. Il corpo, cioè, diventa strumento di linguaggio, che non è mai linguaggio affettivo. Non è la carezza, e anche laddove c’è la carezza con il proprio vicino è una carezza occultata. Il sé corporeo si manifesta sempre “in negativo”.
La seconda distruzione è quella del sé espressivo. Il carcere è il luogo della non espressione. Ogni espressione è veicolata da una domanda scritta, da un atto, e non comprendere l’atto significa non riuscire a esprimersi. E l’espressività, poi, non trova più nel tempo un elemento disponibile: quello del carcere è un tempo scandito con una ciclicità che non corrisponde al tempo esterno, quindi viene annientata la possibilità di esprimersi tramite le proprie inclinazioni e la produzione di ciò che si sa fare.
Il terzo sé che viene distrutto è il sé dell’adultità, perché il carcere è una grande operazione di neoinfantilizzazione. Non si è più un soggetto che decide, come un qualsiasi adulto, ma si diviene oggetto di un trattamento deciso da altri e di un tempo vincolato da altri. Tempo fa mi capitò di andare in un carcere dove c’era un laboratorio di ceramiche. Chi lo dirigeva ne era molto orgoglioso e mi portò a vederlo. In questo laboratorio le persone avevano fatto fiocchetti, cuori... Il direttore mi chiese cosa ne pensassi? Io a volte sono un po’ insofferente… e risposi: “Butterei per terra tutto, rovescerei questi tavoli, perché non conosco persone adulte che fanno fiocchetti di ceramica durante il giorno”. È chiaro che ci sono persone che hanno l’hobby della ceramica, c’è chi fa il ...[continua]

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