Antonella Salomoni insegna Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università della Calabria e Storia della Shoah e dei genocidi presso il Dipartimento di Storia, Culture e Civiltà, Università di Bologna. È attualmente impegnata nella ricerca “Political cultures in the transition from Communism to ‘illiberal’ democracies. The cases of Russia, Ukraine and Poland”. Ha pubblicato, tra gli altri, Le ceneri di Babij Jar. L’eccidio degli ebrei di Kiev, Il Mulino, 2019. L’Unione Sovietica e la Shoah. Genocidio, resistenza, rimozione, Bologna, Il Mulino, 2007.

Vorremmo ci aiutassi a capire quale è stata l’evoluzione del regime di Putin negli ultimi vent’anni.
Premetto che lo scoppio del conflitto mi ha colto di sorpresa: per quanto se ne parlasse da tempo, le modalità e l’intensità sono state causa di grande disorientamento. Anche per questo sto cercando di ritrovare un filo di coerenza con l’oggetto dei miei studi. Attualmente sono coinvolta in un progetto di ricerca sulle cosiddette “democrazie illiberali”, con particolare attenzione ai casi di Russia, Ucraina e Polonia.
Negli ultimi due anni, abbiamo concentrato la nostra attenzione sul processo di de-democratizzazione che è in corso in Russia da tempo, senza forse renderci conto della contrapposizione che si andava creando tra un paese, l’Ucraina, che con grande fatica è andato verso la democrazia (uso qui il termine democrazia in chiave storica, molto ampia); una transizione complessa, difficile, con molti ostacoli e passi indietro, però decisa, e dall’altro lato invece un paese come la Russia che ha intrapreso il cammino opposto.
Una contrapposizione che si è esacerbata al punto da far scoppiare un conflitto armato. Ora, che questo fosse nell’ordine delle cose non so dirlo. Certo è che nel piccolo gruppo di amici e colleghi che si occupano di questi temi il disorientamento è stato abbastanza comune, così come è comune la sensazione di essere di fronte a qualcosa di nuovo, Il sistema putiniano, per come si è configurato negli ultimi vent’anni, ha assunto forme inedite, per cui bisogna rifuggire da facili analogie. Io ad esempio stento ad accettare l’idea che si tratti di un sistema di carattere neoimperiale, o imperiale. Sono convinta che siamo proprio di fronte a qualcosa di nuovo. Allora qui introdurrei subito la questione della “democrazia sovrana”.
Cosa si intende per “democrazia sovrana”?
Di democrazia sovrana in Russia si è iniziato a parlare a metà degli anni Duemila, prospettando contestualmente un nuovo sistema politico e un nuovo modello statuale. L’idea era quella di costruire un sistema democratico (per quanto paradossale oggi possa sembrare), richiamandosi quindi a quella forma di governo avendo però in mente una democrazia propria, quindi non di imitazione del modello occidentale, ma fondata sul retaggio, sull’eredità della Russia.
Questa insistenza sul passato e sul valore del proprio stato è a mio avviso il principale filo conduttore per capire come si è evoluto questo regime. Qualcuno parla di democrazia autocratica. Io non so come si possa definirla, lo dico con grande franchezza, certo è un modello nuovo che si richiama molto alla storia. Non è un caso che lo stesso presidente Putin più volte insista sulla storia, scriva saggi storici. I suoi discorsi non vanno quindi presi sottogamba. Così come andava presa sul serio a suo tempo la nozione di democrazia sovrana, dove si prefigura un nuovo modello di stato che ha molti aspetti di conservazione, autoritarismo, ma soprattutto pone con grande violenza il problema della sovranità. La difesa della sovranità è diventata il punto centrale di tutta l’azione politica, che si tratti di politica estera o interna. Con un’accentuazione sempre più radicale di quelli che sono gli elementi di carattere autoritario. Forse questo è il termine che più si presta a definire la società e il sistema politico putiniano oggi.
La categoria della sovranità deriva probabilmente dal grande senso di umiliazione di fronte alla deflagrazione dell’Unione sovietica. La mortificazione, il risentimento sono diventati elementi cruciali delle relazioni internazionali e delle politiche estere, non soltanto nel caso della Russia.
Nel momento in cui Putin arriva al potere, il tema della sovranità, e anche di uno stato forte è una reazione al problema della perdita di centralità, del senso di potenza dello stato. C’è un testo di Putin che io continuo a ritenere un punto di riferimento. Si tratta di un suo intervento del 2005. Apro una parentesi: se dovessi datare il momento in cui c’è un’inversione rispetto al percorso della transizione, lo collocherei dalla metà degli anni Duemila. Lì si apre una strada che provoca una serie di consequenzialità. Bene, in questo famoso discorso, Putin si rifà alla fine dell’Unione sovietica come alla “più grande catastrofe geopolitica del secolo”. Non molti, però, hanno prestato attenzione a quello che Putin dice dopo, in particolare a quello che lui definisce “il dramma dei compatrioti”. Qui il tema della sovranità diventa propedeutico alla tutela dei compatrioti, che significa non solo sostenere, aiutare, ma anche riunire quelle decine di milioni di concittadini che con la fine dell’Unione sovietica si sono trovati al di fuori del territorio russo.
Devo ammettere che quando Putin nel 2005 pronuncia queste parole, io non le capisco immediatamente. Oggi, a rileggere quella frase con una buona dose di filologia, si capisce come il dramma fosse proprio quel processo di disintegrazione che aveva posto al di fuori dei confini del nuovo stato, la Russia, decine di milioni di compatrioti.
In quel momento si apre un percorso anche di discontinuità rispetto alle politiche del passato: Putin diventa molto aggressivo dal punto di vista politico; per lui la statualità, dunque la sovranità russa, non è più un atteggiamento solo di difesa ma anche in qualche modo “costruttivo”, cioè portatore di un tentativo di riunificazione.
Io ho cercato di capire in che modo si è cercato di portare avanti questa riunificazione. Sicuramente c’è stato l’aiuto a tutti i separatismi: dalla Georgia, quindi l’Abkazia e l’Ossezia del sud, alla Crimea e al Donbass, ma poi c’è la Moldova, con la Transnistria... Il governo russo ha assunto un approccio foriero di forti tensioni a livello internazionale in questi ultimi anni.
Per quanto riguarda la cosiddetta “tutela dei compatrioti”, dicevi che un ruolo importante l’ha giocato la riforma delle leggi sulla cittadinanza. Puoi raccontare?
Le modifiche e integrazioni alla legge sulla cittadinanza nella Federazione Russa sono state numerose nel corso del tempo. Qui è importante credo fornire qualche dato: dal 1992 al 2002, dieci anni, circa due milioni e 900 mila persone hanno ricevuto la cittadinanza russa. Dal 2003 al 2013, la Federazione ha guadagnato altri due milioni e ottocentomila nuovi cittadini, a cui vanno aggiunti altri tre milioni e trecentomila soltanto nel quadriennio 2014-2017. Assistiamo quindi a una vera e propria accelerazione.
Chi sono questi nuovi cittadini?
Sono persone che vengono dalle ex repubbliche sovietiche, in primis l’Ucraina che, nel corso degli anni, è stato il paese che più ha dato nuovi cittadini, poi Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Armenia, e così via. Questi sono i bacini principali.
In sostanza sono state introdotte tutta una serie di facilitazioni che hanno visto allentare quelli che erano i requisiti tradizionali, per cui ottenere la cittadinanza russa è ora molto facile: addirittura non è neanche più necessario superare una prova di lingua, cioè non occorre parlare russo. Molti passaporti sono stati rilasciati in occasione di questi conflitti ibridi: molti nuovi cittadini vengono infatti da Abkhazia, Ossezia meridionale, Transnistria.
Ma ciò che più colpisce, al di là dei numeri, è che sono state definite nuove politiche migratorie.
Poco prima del conflitto, è stato varato un nuovo programma per il periodo 2019-2025. In questi documenti si sottolinea come le politiche migratorie e le politiche della cittadinanza siano dei temi fondamentali per lo sviluppo del paese perché, da un lato, devono proteggere il mercato nazionale (la Russia in questo momento ha un grave deficit di manodopera); ma poi servono -recita il documento- “a favorire la pace interetnica e interreligiosa”; infine si sottolinea la volontà di proteggere e conservare la cultura, la lingua e il patrimonio dei popoli della Russia. Qui il riferimento ai bielorussi e agli ucraini è del tutto evidente.
Infine, queste politiche, oltre alle ragioni economiche e a quelle di carattere interreligioso, interetnico, devono servire a costituire la base del codice culturale russo. Qui siamo proprio di fronte a un nuovo progetto; a un nuovo modello. C’è l’idea di una nuova via, di un cammino peculiare, di un Sonderweg russo, che si può costruire anche sulla base della guerra.
Ma un’evoluzione così brutale della guerra era una tappa prevista o c’è stato un errore di valutazione?
Personalmente sono rimasta molto colpita dalla riunione pre-invasione; quella in cui erano presenti il governo e il responsabile dei servizi; l’ho ascoltata con grande attenzione e ho anche letto dei commenti di giornalisti russi non governativi, della stampa non allineata, che hanno cercato di cogliere anche i gesti, l’intonazione della voce, il modo in cui Putin interrogava i suoi ministri. La percezione è che la decisione di invadere sia stata presa da un gruppo davvero molto ristretto. La maggior parte delle persone presenti all’incontro del consiglio di sicurezza palesemente non sapeva cosa sarebbe successo. Basti pensare al comportamento di Sergei Naryshkin, il capo dei servizi, e alla figura un po’ patetica che ha fatto. Nel suo caso era evidente che non sapeva cosa stesse succedendo.
Probabilmente le uniche persone informate erano il ministro della guerra, della difesa, e il responsabile della guardia nazionale, l’ultimo a parlare e il più esagitato di tutti. Non è chiaro se lo stesso Lavrov fosse ben consapevole di quello che stava avvenendo.
Che poi questa decisione fosse nell’aria, beh, questo sicuramente. Verosimilmente la prospettiva era però quella di fare una guerra lampo. L’obiettivo -anche questo si è detto- era l’uccisione immediata di Zelensky e la creazione di un nuovo governo. Gli Stati Uniti però hanno avvisato Zelensky e lì le cose sono cambiate, poi è arrivata la resistenza ucraina, che nessuno si aspettava e a quel punto i russi sono stati totalmente disorientati dagli eventi.
Ancora oggi non è chiaro quale sarà l’esito del conflitto. L’esercito russo si è rivelato decisamente al di sotto delle aspettative. È probabile che il mondo militare non fosse così coeso e ci siano state delle resistenze. Soprattutto nei primi giorni, ci sono state molte epurazioni sia all’interno dell’esercito che dei servizi, questo è trapelato, con conseguenti avvicendamenti al vertice proprio perché non c’era una totale convergenza con gli obiettivi del conflitto.
In questi ultimi anni in Russia sono stati fatti interventi pesanti anche nel mondo dell’istruzione, della cultura...
Negli ultimi dieci-quindici anni a livello legislativo ci sono stati tutta una serie di interventi di carattere repressivo in vari ambiti, tra cui quello della cultura e del sistema educativo. È in corso un vero e proprio smantellamento del mondo dell’università: ormai tutti i rettori non allineati sono stati sostituiti. Anche negli ultimi giorni sono partiti diversi accademici, universitari, rettori che stanno lasciando la Russia. Non appena varcano la frontiera vengono definiti agenti stranieri.
Ma poi stanno modificando i programmi di insegnamento, questo già da diverso tempo. Già due-tre anni fa -allora non avevo prestato sufficiente attenzione- erano stati chiusi tutti i corsi di culturologia, una disciplina tipicamente russa che possiamo far risalire alla scuola di Tartu, di Lotman; un ambito importante segnato da forte spirito indipendente e creativo.
Con ancora maggiore radicalità sono intervenuti nel sistema di istruzione primario e secondario, in particolare attraverso la riforma dei programmi di insegnamento. Già una decina di anni fa è stato introdotto un manuale di storia unico; operazione che all’epoca aveva creato molto dibattito. Da notare che anche in Bielorussia è stato ora adottato un manuale di storia unico esattamente identico. Ci sono delle convergenze che andranno indagate per approfondire questa idea di civiltà che dovrebbe riunire i popoli slavi.
Si è detto che alla base c’è anche una questione di valori, quelli tradizionali russi in opposizione a un Occidente visto come decadente...
In effetti i discorsi sui valori sono sempre espressi in chiave anti-occidentale o comunque con l’obiettivo di difendere e valorizzare la civiltà russa. Il progetto è quello del Russkij Mir, una nozione in uso già da tempo, che in origine era rimasta circoscritta ad ambienti molto marginali, quelli del conservatorismo estremo, dell’estrema destra non semplicemente nazionalistica, ma conservatrice e “civilizzazionista” (il termine in italiano non c’è, ma per intenderci). In seguito questi discorsi si sono ampliati e hanno coinvolto altri settori.
Di recente quest’idea è stata formalizzata in un progetto di legge dal titolo “Fondamenti della politica statale per la conservazione e il rafforzamento dei valori spirituali e morali tradizionali russi”. Esiste una bozza di decreto, che è stata discussa in una commissione della Duma.
Posso citarne alcuni frammenti. Qui con valori tradizionali si intendono delle linee guida, di carattere morale, che devono modellare la visione del mondo dei cittadini russi. Quindi è davvero una nuova ideologia, non so come definirla altrimenti. Parliamo di lineamenti di visione del mondo che devono essere condivisi dalla popolazione nel suo insieme, trasmessi di generazione in generazione e che garantirebbero “l’unità civile, l’identità della civiltà russa e un unico spazio culturale nel paese”. Quindi c’è proprio un’idea monolitica di paese, di pensiero; è un pensiero unico. Che trovano -cito dalla bozza- “la loro unica manifestazione nello sviluppo spirituale, storico e culturale di un popolo multinazionale”, che è la Russia.
Chiaramente sullo sfondo c’è la contrapposizione con l’Occidente e con l’Europa, perché questa è innanzitutto una guerra anti-Europea, io la leggo così. Ecco, qui ricorre moltissimo quest’idea di una lotta contro un’ideologia distruttiva, che è ovviamente quella occidentale. In quel testo, la formula “ideologia distruttiva” torna cinque, sei, sette volte e dentro ci sono i gay, il femminismo, il consumismo, il globale… tutto ciò che può avere un impatto psicologico, ideologico, sui cittadini della Russia traviandoli da quella che è la via maestra.
Quali sono i principi cardine di questa nuova ideologia?
Innanzitutto il patriottismo, parola centrale in tutto questo discorso, così come l’idea della cittadinanza, il servizio alla patria e la responsabilità per il suo destino. Questi sono un po’ i principi evocati.
A questo si affianca la famiglia forte, fondata su un modello molto tradizionale, quindi patriarcale, tra l’altro in un paese in cui le donne invece erano riconosciute come una componente importante. Poi la priorità dello spirituale sul materiale. Si parla di umanesimo, un umanesimo russo, di misericordia, giustizia, collettivismo, ecc. ecc., sono tutte parole d’ordine che hanno al centro l’unità russa, quest’idea del grande russo che torna con forza.
Qui entra in campo anche la questione della sicurezza. Noi siamo abituati a pensare a questo concetto prevalentemente in chiave di politica estera, geopolitica, in realtà qui assistiamo alla rivendicazione di una sicurezza intesa in senso spirituale, morale, culturale. I discorsi di Kirill li possiamo comprendere all’interno di questo discorso, senza dimenticare che sono almeno dieci anni che lui fa queste dichiarazioni contro l’Occidente corruttore e dunque distruttore.
Quest’ideologia che descrivevi sembra porsi in discontinuità con l’epoca dell’internazionalismo, di una società più libera almeno nei costumi...
In parte è così. Un’altra cosa che mi ha molto colpita è stato l’attacco a Lenin nel corso del discorso in cui di fatto dichiarava guerra all’Ucraina. Adesso non ricordo le parole precise ma, a proposito dell’Ucraina, Putin ha detto che era tutta colpa di Lenin. Ecco, anche questa è stata una cesura forte. Non avevo mai letto un attacco a Lenin così esplicito. Attacchi a Gorbacev sì, tanti e violentissimi; c’è infatti un revisionismo estremo riguardo all’esperienza della perestrojka e anche al primo periodo eltsiniano. Ora, senza arrivare a parlare di neostalinismo, questa difesa a oltranza del periodo della Seconda guerra mondiale, “grande guerra patriottica”, in cui la nazione ritrova la propria unità attorno alla necessità di difendere la patria, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista della posizione di grande potenza all’interno del mondo bipolare; ecco, questa è la grande eredità che l’attuale sistema putiniano vorrebbe recuperare a tutti i costi. Qui c’è invece una grande continuità. Di qui le reazioni alla controversa risoluzione del Parlamento europeo del settembre 2019 sulla memoria europea che (pur con qualche inesattezza storica e semplificazione) condanna i regimi totalitari , vissuta come una sorta di umiliazione del ruolo dell’Unione sovietica durante il conflitto mondiale.
Quella mossa in Russia è stato presa proprio come un affronto; ci sono stati interventi a tutti i livelli, anche molto violenti.
Detto questo oggi noi prestiamo grande attenzione agli interventi di Putin, ma occorrerebbe iniziare a leggere anche quelli di Lavrov, per capire come si è modificata la politica estera, così come i testi di Medinsky, uno dei grandi responsabili della trasformazione del paese dal punto di vista della sua sfera culturale all’insegna di un irrigidimento davvero forte.
Quando si può collocare questa svolta antioccidentale? Ancora nel 2001 Putin aveva fatto un discorso importante al Parlamento tedesco, omaggiando la democrazia e auspicando la fine della Guerra fredda. Mauro Martini, già ai tempi del Caucaso, poneva come cruciale la questione di dove va la Russia, verso l’Europa o verso l’Asia?
È un processo contraddittorio, tutt’altro che lineare. Quando Putin arriva al potere, nel 2000, c’è inizialmente un riavvicinamento con l’Europa. Vengono siglati diversi accordi di carattere commerciale e politico. Fatico a intravedere una vera e propria inversione di marcia dal punto di vista delle relazioni. Vedo più una serie di cesure, anche interne, soprattutto a partire dal 2005-2007. Il 2007-2008 è una tornata elettorale molto importante, in quell’occasione i programmi elettorali del partito di maggioranza Russia Unita sono già molto definiti sulla questione della democrazia russa, di cosa significhi e di come si sia aperta questa nuova strada, una via peculiare verso la democrazia. In questi discorsi si insiste molto sulla nozione di democrazia, che però assume una fisionomia inedita, che si richiama a un’esperienza secolare, interna, del tutto originale, autonoma da qualsiasi altra strada seguita all’esterno, soprattutto in Occidente.
Comunque è vero, per tutti gli anni Duemila ci sono buone relazioni con l’Europa. Forse il primo vero momento di incrinatura risale alla guerra in Georgia, quindi al 2008, ma alcune tensioni si colgono già nel 2004, l’anno della rivoluzione arancione in Ucraina. Facendo una riflessione a posteriori, già in quel periodo si vedono i segni di questo atteggiamento difensivo rispetto a un paese, l’Ucraina, che inizia a guardare all’Europa, e che per questo viene avvertito come una pericolo incombente.
Esiste ancora una dissidenza in Russia e quale può essere il suo ruolo?
Devo dire che sono un po’ pessimista per il prossimo periodo, nel senso che c’è una dissidenza, un pensiero non allineato, molto potente dal punto di vista critico e dell’elaborazione e però è silenziato.
Fin dal primo giorno di guerra, seguo la stampa non governativa, nei limiti del possibile perché hanno iniziato a chiudere tutti i giornali più importanti. Quello che seguo quotidianamente, Meduza (meduza.io/en) è collocato in Lituania e quindi riesce ancora a lavorare. Però non viene letto in Russia. La democrazia sovrana prevede anche un “internet sovrano”, per cui è stato creato un sistema che punta al controllo totale sulla  rete. Un controllo che con qualche accorgimento si può aggirare, ma bisogna essere utenti esperti, serve una vpn, ecc.
Quello che è successo al mondo della comunicazione negli ultimi quindici anni è una forma di graduale assoggettamento di tutti i media: si sono sostituiti i direttori dei giornali, e quelli che non accettavano l’avvicendamento sono stati chiusi. È stato chiuso il giornale di Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace, “Novaya Gazeta” (il nuovo quotidiano), un giornale bellissimo, con interventi e contributi davvero strabilianti. Per fortuna è da poco attivo in rete “Novaja Gazeta Europa”.
Come ricorderete, ad aprile Muratov è stato aggredito con della vernice rossa e dell’acetone, mentre era in treno in viaggio da Mosca a Samara. Questo è un paese dove l’assassinio politico contro gli oppositori è stato frequentissimo in passato. Basti citare Anna Politkovskaja, ma sono tantissimi gli assassini politici; Navalny è in carcere e probabilmente non ne uscirà.
Quindi da anni vige una repressione violenta: non si rischia solo di andare in galera, ma si può anche incorrere in minacce fisiche e avvelenamenti. Questo per dire che il mondo della dissidenza è totalmente minoritario e destinato ad assottigliarsi perché chi può sta emigrando. Ovviamente parliamo dei ceti più colti, gli intellettuali, gli oppositori; c’è un significativo flusso di uscita dalla Russia, così come dalla Bielorussia d’altra parte...
Pertanto non vedo nell’immediato moltissime possibilità. Occorrerà monitorare continuamente la situazione e dare tutto il sostegno possibile a questi soggetti perché l’opera di repressione è stata davvero imponente, soprattutto negli ultimi dieci anni. La legge sugli agenti stranieri purtroppo ha funzionato a tutti i livelli, dalle grandi realtà come Memorial e altri istituti, quale ad esempio il centro Levada, il grande istituto di sondaggi non governativo, ai vari organi di stampa non governativi che, dopo il secondo avviso da parte dell’organo della censura, vengono chiusi immediatamente. “Novaya Gazeta” ha fatto una cosa intelligente, dopo il secondo avviso si è fermata autonomamente; questo ha consentito di preservare l’agibilità del sito e quindi di salvaguardare l’archivio. Non so se siano riusciti a salvare anche l’Eco di Mosca, una radio importante. Io da tempo, per sicurezza, ho iniziato a scaricare tutto...
Prima hai parlato della cittadinanza che viene data ai “nuovi” russi. La cittadinanza però viene anche tolta...
Le leggi che citavo sono tese a favorire la ricomposizione della diaspora, chiamiamola così, o comunque dei concittadini che sono fuori. Sono forme di tutela e ricostruzione della comunità, di una comunità il più possibile ampia. La grande contraddizione è data dal fatto che, da un lato, si opera sulla cittadinanza avendo come obiettivo la salvaguardia del mondo russo, del Russkij Mir, dall’altro lato però si toglie la cittadinanza ad altri, ai dissidenti, alle persone mandate al confino o in carcere, privandoli sostanzialmente dei diritti civili.
Qualche settimana fa leggevo un articolo proprio sulla necessità di ripensare completamente la parola cittadinanza alla luce dei diversi obiettivi di carattere demografico, economico, culturale, spirituale, come pure in quelli opposti di estromissione. Dunque c’è questa enorme contraddizione. Da questo punto di vista potremmo forse anche considerarlo un laboratorio interessante. Oggi questo termine, cittadinanza, che cosa significa? Noi siamo stati abituati a pensarlo e a declinarlo in modo tradizionale, storico, mentre oggi assistiamo a interpretazioni ed evoluzioni del concetto del tutto nuove.
La questione della cittadinanza era già stata al centro di un gioco di risposte reciproche tra Russia e Ucraina negli anni passati, nel senso che la legge ucraina non prevede la doppia cittadinanza, quindi coloro che ad esempio nel Donbass ottenevano la cittadinanza russa se la vedevano automaticamente togliere dall’Ucraina. Anche questo è stato oggetto di grandi discussioni e ha esacerbato la conflittualità.
Voglio citare un ultimo aspetto, che interseca movimenti migratori e sanzioni economiche. Anche qui è un articolo russo che mi ha fatto riflettere. Si tratta di una delle conseguenze sulle quali temo non abbiamo ben riflettuto. Premetto che io sono favorevole alle sanzioni economiche; in questo momento mi sembrano uno dei pochi strumenti a disposizione per cercare di contenere quelli che potrebbero essere degli esiti ancora più catastrofici del conflitto perché la Russia è aggressiva in modo estremo. Tuttavia forse non ne abbiamo considerato bene gli effetti. Per esempio, se in seguito alle sanzioni e alle mancate esportazioni, chiuderanno grandi comparti economici, una quota della popolazione migrante verrà espulsa. Questo è un problema che riguarda in particolare l’Asia centrale: ci saranno milioni di persone che dovranno tornare in Kirghizistan, in Kazakistan, che sono i grandi serbatoi di questa popolazione che lavorava in Russia e mandava a casa le proprie rimesse, i propri salari. Questo creerà nuova instabilità in paesi già di loro fortemente instabili, con conseguenze anche sul piano internazionale che è difficile stimare.
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)