Amedeo Savoia insegna Lettere nei licei. Fra il 2005 e il 2018 ha svolto in carcere attività di insegnamento, teatro e scrittura. È socio fondatore dell’associazione “Dalla Viva Voce”, che si occupa di assistere persone a fine pena o misura alternativa. Ha recentemente pubblicato il libro Se li guardi. Racconti di persone finite in carcere (il Margine, 2021) con prefazione di Claudio Giunta.

Vorrei ragionare con te del modo in cui la rieducazione penitenziaria può essere attuata attraverso la “cultura”, partendo dalla tua diretta esperienza. Tu hai insegnato in carcere per alcuni anni: come ci sei arrivato?
Dunque, io insegno dal 1989, e dal ’96 al liceo Leonardo Da Vinci di Trento, che ho frequentato anche da studente. In carcere ho insegnato, tra il 2014 e il 2018, nella scuola superiore della casa circondariale di Trento. Prima, tra il 2005 e il 2014, avevo fatto esperienza soprattutto di laboratori di teatro, con un paio dedicati all’autobiografia. Poi hanno aperto il liceo economico-sociale Rosmini, per cui io facevo questa strana cosa che non so se esiste a livello nazionale. Si chiama prestito professionale, che in Trentino esisteva ed esiste ancora. Avevo mezza cattedra al liceo Da Vinci con le mie classi ordinarie e mezza al Rosmini, nella casa circondariale. Lì insegnavo italiano e storia.
Insegnante anfibio, diciamo così: con un piede fuori e l’altro dentro il carcere. Come ti è venuta l’idea di andare a insegnare lì? È stata una scelta?
Non lo so… Bisogna tornare al 2005, quando mi è stato richiesto di andare a insegnare alla scuola superiore perché avevo conosciuto già il carcere per le varie attività che avevo fatto. A Trento, quando in città c’era ancora il vecchio istituto, praticamente per tornare a casa dovevo girarci intorno tutti i giorni. Era una presenza molto forte sul territorio e mi chiedevo cosa c’era là dentro, facevo delle domande, più per curiosità che per altro. Poi, conoscendo le maestre che allora insegnavano lì, le ho avvicinate. Da alcuni anni tenevo dei laboratori di teatro per gli studenti del liceo Da Vinci, così abbiamo progettato un laboratorio di teatro alla pari, per così dire, fra alcuni ragazzi che erano nel carcere e alcuni studenti del liceo.
La prima volta fai la cosa più particolare, più strana, più incredibile… Io entravo con un paio di colleghi, il primo anno con un collega solo, che insegnava storia dell’arte e faceva parte del gruppo come scenografo, curava tutti gli aspetti artistici delle nostre messe in scena. Il carcere di Trento aveva numeri piccoli e spazi limitati.
Ci dissero: potete entrare con tre studenti, e noi facemmo quell’esperienza con tre studenti, fra cui due studentesse, e sette-otto ragazzi che erano in carcere. Era stata posta la condizione che gli studenti fossero maggiorenni, quindi di fine liceo, e anche i ragazzi del carcere erano molto giovani, avevano forse un paio d’anni più di loro.
Fin dall’inizio ci eravamo dati un vincolo, per cui i ragazzi che entravano dal liceo sarebbero stati fruitori del laboratorio esattamente come quelli che avrebbero incontrato in carcere. È stata un’esperienza molto intensa, molto bella, proprio per questo. Di fatto i ragazzi che erano in carcere hanno lavorato con gli altri studenti alla pari. C’era un doppio laboratorio, avevamo due celle, diciamo due aule trattamentali, e in una io facevo il laboratorio di scrittura teatrale. Abbiamo sempre scritto i testi da zero, nel senso che partivamo dalle esperienze, fin da subito abbiamo cominciato a lavorare sul vissuto delle persone. Nell’altra stanza invece il mio collega, Emilio Picone, faceva laboratori di cartapesta. Costruimmo degli oggetti, delle maschere, che poi utilizzammo per la scenografia. Alla fine lo spettacolo venne realizzato, per le condizioni che ci aveva posto il carcere, in una stanza che sarà stata di quattro metri per quattro, cinque per cinque, forse più piccola… Ci inventammo il teatro da cella. “Trame di viaggio” si intitolava lo spettacolo, con una decina di ragazzi e le sedie in circolo. Mettevamo insieme le esperienze di viaggio che avevamo raccolto dalle persone che partecipavano al laboratorio. Il pubblico (circa otto, dieci persone che avevano avuto il permesso per entrare) si sedevano alternativamente agli attori e gli attori, che portavano grandi maschere di cartapesta, a un certo momento cominciarono a togliersele. Chi era entrato non sapeva chi fosse detenuto e chi no.
Sul rapporto fra carcere e teatro ...[continua]

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