Michele Passione, avvocato penalista e componente esperto dell'Ufficio del Garante nazionale delle persone detenute e private della libertà personale, ha partecipato ai lavori degli Stati Generali dell’esecuzione penale (2015-2016) e della Commissione istituita nel 2017 presso il Ministero della Giustizia per l’attuazione della riforma penitenziaria introdotta dalla l. n. 103/2017.

Vorrei partire dal passato recente: le violenze commesse da alcuni agenti della polizia penitenziaria ai danni di persone detenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020. Una vicenda che solleva diversi problemi circa il carcere come istituzione preposta alla rieducazione e che invece fa periodicamente i conti con l’oltraggio dei diritti fondamentali delle persone recluse e con le condizioni complesse in cui gli stessi operatori penitenziari si trovano a lavorare.
Provo a rispondere cercando di non sottrarmi al tema grande sotteso alla riflessione proposta. Non credo si possa e si debba cedere al rischio di generalizzazioni, ma è del tutto evidente, e non da ora, che il tema della violenza nei luoghi di privazione della libertà personale ha molto a che fare con il concetto di “cesto marcio” (e non di mele marce) di cui ha parlato Philip Zimbardo, ripreso di recente da Annamaria Manzoni. La storia della tortura è antichissima (chiedere a Cesare Di Lenardo). Credo proprio che ciò dipenda dal tipo di istituzione che alimenta le condotte extra ordinem (non ad eruendam veritatem), perché profondamente intrisa di logiche incapacitanti e infantilizzanti, che erigono paratie tra buoni e cattivi. Un contesto contraddistinto da rapporti di potere, dove ancora si stenta a rapportarsi all’Uomo, piuttosto che al reato commesso, non può non alimentare violenza. Nessuno di noi è totalmente buono o cattivo (e, di nuovo, il famoso esperimento del lontano 1971 della Stanford University lo ha rivelato: i “bravi ragazzi” si calarono subito nel ruolo di spietati aguzzini).
Eppure a questa istituzione è assegnato il compito di rieducare i cattivi trasformandoli in buoni anche attraverso strumenti quali l’istruzione nella scuola, i corsi organizzati da soggetti del Terzo settore, a volte proposte come quella ispirata al brasiliano Reembolso através da leitura: uno scambio fra libri letti e giorni di libertà guadagnati. Idea che oggi in Italia può apparire lunare, ma presenta almeno alcuni spunti per una riflessione più ampia sulla rieducazione. Del Reembolso tu cosa pensi?
Penso che le cose che vengono da fuori debbano essere analizzate nel contesto in cui nascono. Quello è un contesto che non conosco nel dettaglio ma che immagino profondissimamente diverso dal nostro per numeri, tipologie dei reati, promiscuità delle carceri… Per tutta una serie di ragioni. E dunque su quello non mi azzardo a formulare giudizi, anche perché ho idea che possa essere forse una provocazione intellettuale ma forse anche un esperimento che ha dato buoni frutti. Sappiamo che alcune carceri brasiliane, particolarmente spinte in percorsi innovativi, si apprezzano come significativamente distanti e diverse dalla maggior parte delle altre carceri.
Non so se si possa azzardare un riferimento a quello che è Bollate per noi. Probabilmente anche qualcosa di più; ma mi fermerei qui. Se dovessi immaginare questo esperimento esattamente per come è stato disegnato e attuato in Brasile e in Italia, direi che sono contrario. Innanzitutto perché intanto l’idea che ci sia un’autorizzazione di un’autorità giudiziaria a potersi misurare con l’esperienza di lettura anche in considerazione del reato commesso mi pare totalmente sbagliata. Prendo spunto dai lavori della commissione ministeriale che due giorni fa [24 maggio 2021] ha licenziato e trasmesso al Ministro, finalmente, il testo in cui si propone quello che noi ai tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale [2015-2016] avevamo scritto: giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento senza preclusioni per titolo di reato. E dunque, se si crede nella possibilità di un incontro fra persone -lì fra autore e vittima di reato, qui fra una persona e un libro- scotomizzare quell’ipotesi a seconda del tipo di reato mi pare già di per sé qualcosa da salutare con sfavore. Aggiungo che l’esperienza della lettura, come la giustizia riparativa, se imposta, è assiologicamente contrastante con lo spirito della lettura stessa. Credo che non si possa imporre un libro a nessuno, neanche a un figlio, ch ...[continua]

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