David Miller, filosofo politico britannico, attualmente insegna Teoria sociale e politica presso il Nuffield College di Oxford. Nei suoi studi si è occupato di giustizia sociale, cittadinanza e identità nazionale. Il libro di cui si parla nell’intervista è Strangers in Our Midst. The Political Philosophy of Immigration, Harvard University Press, 2016.

L’immigrazione è diventato un tema scottante e divisivo. Nel dilemma tra apertura e chiusura, lei introduce il concetto di "cosmopolitismo debole”. Può spiegare?
Io distinguo tra cosmopolitismo forte e cosmopolitismo debole. Un cosmopolitismo forte comporta che, sia personalmente che politicamente, trattiamo le persone con la stessa premura, la stessa considerazione, chiunque esse siano, non importa dove vivano o che siano concittadini o meno. Un approccio che, se preso sul serio, non solo non ammette favoritismi verso i propri compatrioti, ma nemmeno verso familiari, amici, colleghi. È insomma una proposta molto radicale, che metterebbe in crisi le nostre istituzioni politiche, ma anche il nostro stesso comportamento quotidiano. Come saprà, il mio argomento è che noi in realtà intratteniamo relazioni speciali con familiari, amici e concittadini; tali relazioni comportano una particolare sensibilità e attenzione, ma direi anche dei doveri, verso i loro desideri e le loro preoccupazioni. Per questo sostengo che dovremmo abbandonare la versione "forte” del cosmopolitismo in favore di una più debole, che sostiene che noi abbiamo dei doveri verso gli esseri umani in quanto tali, nel senso che dobbiamo rispettarne i diritti umani, dovunque essi si trovino; e che dobbiamo sempre considerare gli effetti delle nostre azioni su coloro che ne subiranno le conseguenze, a prescindere dal fatto che ci siano legami tra noi. Questa preoccupazione, che è genuinamente cosmopolita, non è però incompatibile con l’espressione di un più ampio grado di attenzione e impegno verso i propri concittadini. Ammetto cioè l’esistenza di una certa parzialità verso i nostri compatrioti; di qui il concetto di "compatriot partiality”. Questa è un po’ l’idea generale, direi più un punto di partenza, perché dobbiamo poi interrogarci in profondità su quali obblighi abbiamo verso le persone che non sono nostri concittadini.
Lei ha citato la legittimità di una parzialità, di un favoritismo verso i propri compatrioti. Le chiedo: fin dove si può spingere questo favoritismo, dove si traccia il confine tra questa parzialità e lo sciovinismo? 
Bene, prendiamo alcuni casi molto semplici. Innanzitutto non si potrebbe mai essere giustificati nell’infliggere sofferenza a degli estranei, degli stranieri, per il bene dei propri compatrioti. Immaginiamo che il modo più economico per produrre energia sia utilizzare una tecnologia molto inquinante, e che l’inquinamento possa nuocere alle persone di qualche altro stato. 
Ecco, in quest’ottica ciò non potrebbe mai essere giustificato. Il fatto che una tale azione porti vantaggi ai tuoi concittadini non potrebbe mai giustificare questo tipo di politica. Credo che lo stesso si potrebbe dire di una politica commerciale che andasse a beneficiare i tuoi concittadini danneggiando seriamente gli altri. Lo sfruttamento è quindi un altro caso. 
Più complicato è dire cosa si dovrebbe fare attivamente per chi non è parte della nostra comunità, cioè quando non si tratta semplicemente di non arrecare danno, ma di offrire un qualche tipo di beneficio. 
Qui entriamo nel campo delle migrazioni. Le persone che vogliono entrare nei nostri paesi vedono un vantaggio nell’essere ammesse. Ora, se noi ...[continua]

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