Stefano Liberti, giornalista e regista, ha scritto, tra gli altri, A sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti (Minimum Fax, 2008). Il libro di cui si parla nell’intervista è I signori del cibo. Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta (Minimum Fax, 2016).

Perché hai scelto di raccontare l’industrializzazione del cibo attraverso questi quattro prodotti, il maiale, la soia, il pomodoro e il tonno?
Ho cercato dei prodotti che fossero rappresentativi della dieta di una buona parte della popolazione mondiale, quindi ho scelto una carne, un legume, un prodotto ittico e un ortaggio, tra i più consumati e i più prodotti. Avrei anche potuto scegliere il mais, il pollo, i gamberetti, eccetera, però comunque dovevano avere le caratteristiche di essere consumati globalmente, di essere delle commodity, quindi merci che viaggiano, cibo industrializzato, di far parte di filiere ognuna delle quali è controllata da poche grandi aziende, di avere un rapporto con la finanza che entra interamente nello svolgimento del processo. Il tutto è rappresentativo dello sviluppo che ha avuto il sistema alimentare negli ultimi 25 anni.
Tu parli di "aziende locusta”...
È un termine che ho coniato perché mi sembrava che potesse dare l’idea del modo in cui operano queste aziende: si spostano da un paese all’altro, a seconda della convenienza che incontrano nelle legislazioni nazionali, per quanto riguarda il lavoro, l’ambiente, il commercio, con un approccio estrattivo, cioè lo radono al suolo senza preoccuparsi minimamente della rigenerazione dell’ambiente e delle conseguenze. In qualche modo rovesciano l’assioma fondativo dell’agricoltura e dell’allevamento, secondo il quale un processo deve avvenire in qualche modo in sintonia con l’ambiente. L’agricoltura è sempre qualcosa di non naturale, perché è l’intervento dell’uomo su un ecosistema. Ma una cosa è trasformarlo con l’obiettivo di mantenerlo, e quindi in un approccio ciclico, per cui tu produci delle colture alimentari e allevi delle bestie sul territorio, e il territorio si rigenera attraverso questo ciclo; altra cosa è farlo in modo estrattivo, per cui fai le grandi monocolture, gli allevamenti intensivi, usi una enorme quantità di chimica, di pesticidi, e quindi la terra non è neanche più una terra che si deve rigenerare, sostanzialmente è uno strato su cui semini. Paradossalmente, questo tipo di agricoltura potresti farlo anche sull’asfalto mettendoci un po’ di terra.
Tu fai l’esempio del Mato Grosso del Brasile. Ce lo puoi raccontare?
Il Mato Grosso in Brasile è ormai una enorme distesa di monocoltura di soia, laddove prima era un ambiente pre-amazzonico, quindi una savana, una specie di giungla, non come la foresta amazzonica, ma con una grande biodiversità, una grande ricchezza di specie vegetali e animali.
A partire dagli anni Settanta, inizio anni Ottanta è stata fatta un’operazione di colonizzazione dei territori interni del Brasile da parte di pionieri che venivano prevalentemente dal sud, dagli stati del Rio Grande do Sul e del Paranà, che sono stati incentivati dal governo dell’epoca con vari sgravi fiscali, con facilitazioni, ma che effettivamente sono partiti come partivano nel Far West americano duecento anni prima; sono andati lì armati di machete a scavarsi dei sentieri, si sono paracadutati con gli aerei. È una storia anche affascinante quando te la raccontano. Uno di questi pionieri mi ha detto: "Io negli anni Ottanta sono arrivato lì e non avevo niente, siamo venuti in un gruppo, il territorio era inospitale, alcuni di noi sono tornati indietro, non ce l’hanno fatta, io invece ero affascinato dal clima, ho creduto nelle potenzialità di questo territorio e ho resistito”. Ebbene, questo signore 35 anni dopo si trova con 270.000 ettari di soia, mentre a casa sua ne aveva dieci. Tutto questo è avvenuto nel giro di pochissimo tempo.
Tutta questa soia dove va?
Viene esportata in tutto il mondo e usata come mangime per gli animali. Da quando la Cina ha industrializzato i propri allevamenti c’è una richiesta sempre maggiore di questo legume, tant’è che i brasiliani dicono che devono raddoppiare la produzione, non si sa bene su quali terre, probabilmente in Amazzonia.
L’industria di produzione, però, è in Cina: loro esportano la materia grezza con queste grandi navi container che attraversano l’Oceano Atlantico, il canale di Panama, l’Oceano Pacifico, infine arrivano in Cina dove sono pre ...[continua]

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