Chi pronuncia più la parola «malandrino»? L’evolversi della lingua l’ha quasi cancellata dal linguaggio corrente, resta nella memoria, al massimo, come una reminiscenza da «Promessi sposi». Eppure quest’uomo che mi trovo davanti, nella via centrale di Sarajevo, la Vaso Miskin, si presenta proprio così, in perfetto italiano: “Io sono un malandrino”. Non il nome e cognome, ma il segno particolare: «malandrino». Fossimo stati in un altro luogo non si sarebbe mai svelato, ne avrebbe avuto pudore, ma qui le distinzioni sono annullate, si sono ribaltate le gerarchie sociali. Forse non sono stati i delinquenti, all’inizio dell’assedio, a salvare Sarajevo? Lo hanno riconosciuto, di recente, anche le «autorità» della Repubblica di Bosnia-Erzegovina. Il sigillo dell’ufficialità sanciva un merito già abbondantemente riconosciuto dalla gente comune. Mentre la Sarajevo della cultura e della politica tirava tardi nei bar, i boss nei boschi allenavano al tiro le proprie milizie private, a posteriori rendendo chiara un’evidenza: la malavita ha dei sensori più sofisticati della gente per bene. La malavita di Sarajevo, in particolare, aveva capito che la guerra sarebbe stata inevitabile. E si preparava. Così il governo, non sapendo a quale forza votarsi, fece ricorso a queste truppe irregolari, non disponendone di proprie, all’esplodere del conflitto, per salvare la città.
Ma quale sorta di «malandrino» è costui che circola con una camicia bianca, una cravatta gialla, uno spolverino all’ultima moda, esibisce una lunga coda di capelli ben curati, ben lavati, e un anello largo un centimetro all’orecchio sinistro? Di primo acchito riflette l’iconografia del baro, non ti stupiresti se dal taschino estraesse una «Dillinger». La cultura dei film western è difficile da cancellare. Mi ha fermato perché ho salutato con un “ciao” un bambino a cui avevo fatto una fotografia e adesso mi invita al bar “da Michele” per bere qualcosa assieme. “Michele”, bisogna saperlo, ha aperto da qualche mese, e chi gli ha fatto i conti in tasca ha concluso che deve avere speso almeno due miliardi (in lire) per arredare di marmo pregiato il locale in uno dei posti più ambiti della capitale. Essendo sospetto, la polizia lo ha arrestato con un’accusa che suona più o meno “profittatore di guerra”.
“Ma è una gran brava persona”, chiosa il malandrino e, davanti al rituale caffè, senza molti convenevoli, mi chiede: “C’è stata l’amnistia in Italia?”. Non conosco la risposta per lui preziosa. Mi informerò, gli riferirò al prossimo viaggio. Sente di dovermi spiegazioni: “Mi chiamo Hussein Dzirlo, ho trentotto anni, venti dei quali passati in Italia. Un mese prima dell’inizio della guerra sono evaso da una vostra prigione e tornato a Sarajevo dove mi sono arruolato e ho combattuto fino al febbraio scorso”. Sufficiente per far decollare una conversazione che dice molto della Bosnia, dice qualcosa anche dell’Italia. I ruoli si rovesciano, è lui che intervista me.
Hussein: “C’è stato il cambio del presidente della Repubblica, da Cossiga a Scalfaro. L’amnistia è automatica in questo caso, no?”
Risposta: “Spiacente, non lo so”.
Hussein: “Se non lo sai significa che non c’è stata. E allora chi si è opposto? Andreotti?”
“Andreotti non è più al potere, passa qualche guaio per vicende legate alla mafia”.
Hussein: “Andreotti? Impossibile. Davvero? E chi si è opposto allora, la Dc?”. “Nemmeno la Dc esiste più. E’ stata cancellata dopo un’inchiesta giudiziaria che è stata definita Tangentopoli. E’ emersa la corruzione del regime”.
Hussein: “Nemmeno la DC? E’ pazzesco. E Craxi?”.
“Riparato in Tunisia, credo. Anche lui travolto dallo scandalo”
Silenzio per qualche secondo.
Hussein (come riprendendosi da uno shock): “E chi comanda allora?”
“Abbiamo appena avuto le elezioni. Le ha vinte il partito di Berlusconi”.
Hussein: “Berlusconi chi? Quello delle televisioni?”
“Proprio lui”.
Altro stupore, altro sbigottimento. Hussein trae una morale: “Ma allora avete fatto la rivoluzione. Una rivoluzione strana però, perché Berlusconi è amico di Craxi”. Noi possiamo trarre diverse morali. Intanto su Sarajevo. In una città europea, la prima che ha avuto un semaforo in Europa, la prima ad avere il gas nelle case nei Balcani, non è passata un’informazione-una da almeno due anni. Isolamento totale, come se fosse un luogo collocato in chissà quale galassia e non a poco più di duecento chilometri in linea d’aria da Trieste, a 55 minuti di volo (militare) da Ancona. Poi ...[continua]

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