Tu sei piuttosto critico su come è stato impostato il dibattito attorno alla crisi e alle possibili vie d’uscita...
All’origine dei problemi in cui oggi ci troviamo non c’è la crisi finanziaria. Capisco di fare un’affermazione che può sembrare azzardata, ma all’origine c’è la crisi del lavoro e della distribuzione della ricchezza, che ha generato la crisi finanziaria, che a sua volta ha creato la crisi economica, che è diventata crisi sociale. In questo senso pensare di affrontare i problemi della crisi finanziaria dal versante della finanza mi fa pensare alla famosa barzelletta dell’ubriaco che cerca la chiave sotto il lampione: alcune persone si fermano ad aiutarlo, ma la chiave non si trova, fino a quando uno, stufo di cercare, gli chiede: "Ma dove l’hai persa?”. E l’ubriaco: "Laggiù in fondo, ma là è buio non si vede niente”. Ecco, io temo che la crisi in cui siamo sia questa: stiamo cercando nel posto sbagliato. Sarò più esplicito: se pensiamo che la soluzione sia la compressione dei diritti e la riduzione del peso del lavoro cerchiamo dalla parte sbagliata.
L’origine del problema sta nel fatto che con il tipo di globalizzazione e di pervasività delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione si è creato un divario a livello mondiale che, se è pur vero che ha elevato pezzi di mondo che prima erano totalmente esclusi dalla vita civile (qualche miliardo di persone che prima morivano letteralmente di fame hanno avuto di che mangiare), nell’Occidente, nel mondo sviluppato, questo ha provocato un ampliarsi di disuguaglianze assolutamente clamorose. Negli ultimi cento anni la ricchezza non è mai stata così polarizzata.
L’ho presa larga, per così dire, ma è fondamentale capire questo, perché se noi pensiamo di rilanciare la competitività con interventi tampone sulle questioni del mercato del lavoro o del costo del lavoro, continuando a illuderci di poter rincorrere le ragioni di scambio ultra favorevoli che esistono in altre parti del mondo, siamo destinati a fallire. Bisogna trovare modi diversi di uscire dalla crisi. Non che queste cose non siano importanti e necessarie, ma se pensiamo di affidare a queste l’uscita dalla crisi, cerchiamo la chiave nel posto sbagliato.
Io penso che per ritrovarla bisogna rimettere al centro il lavoro.
Tu sei molto scettico sull’attuale trattativa, che vede solo nella rigidità del mercato del lavoro le ragioni del mancato sviluppo del nostro paese. Puoi spiegare?
A sentire il dibattito in corso sembra che la crisi di investimenti nel nostro paese sia generata esclusivamente dall’assenza di normative certe sul mercato del lavoro.
Allora, bisogna chiarire intanto che quello è solo uno spicchio della realtà. Tanto più -e questo va detto con chiarezza- che se non c’è ripresa economica, rendere più flessibile il mercato del lavoro non serve a un bel niente, o a molto poco. E qui aggiungo che fino ad ora non vedo provvedimenti che facilitino lo sviluppo: non c’è niente sull’istruzione, sulla formazione, sull’innovazione, sulla ricerca, se non qualche balbettio, bisogna quindi innanzitutto costruire le condizioni per una ripresa dello sviluppo.
Detto questo, le ragioni del mancato sviluppo o del mancato afflusso di capitali stranieri, sono, ahimé, molto più complesse di come vengono raccontate da chi oggi vuol far credere che il problema sia legato -banalizzo- all’art. 18.
Cioè in questo paese la pubblica amministrazione funziona come sappiamo; c’è un sistema di legislazione, anche sul lavoro, lento e farraginoso, c’è un costo dell’energia elevato, c’è un sistema della politica che propriamente trasparente non si può definire, c’è un sistema dei trasporti inadeguato, c’è una diffusione delle reti immateriali che non è all’altezza degli altri paesi sviluppati, c’è un sistema di malavita organizzata che corrode la politica e la società e rende la vita difficile a quegli imprenditori (e sono tanti) che vorrebbero comportarsi onestamente, per non parlare di un sistema bancario totalmente ingessato, di un sistema dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione che ammazzerebbe un dinosauro.
A me sembra che siano questi i fattori.
Insomma, raccontare la storia che il problema è la presunta rigidità del mercato del lavoro significa raccontare balle. In Veneto ogni anno ci sono 50.000 licenziamenti. Il ...[continua]
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