Claudio Pavone, per molti anni archivista di Stato, ha insegnato come professore associato di Storia contemporanea presso l’Università di Pisa. Tra i suoi volumi, Una guerra civile (Torino 1991), Prima lezione di storia contemporanea. Roma-Bari, Laterza, 2007.

Io sono stato in carcere nel periodo della Repubblica Sociale. Lo dico perché ci sono delle differenze tra l’essere stati in carcere prima o dopo l’8 settembre.
Tutto cominciò il 25 luglio. Io ero in licenza a Roma perché avevo fatto il militare avendo la fortuna di non andare mai in guerra. Un fratello di mio padre, generale in pensione e per giunta in odore di antifascismo, ma pur sempre generale, mi aveva fatto assegnare alla guardia alla frontiera, un inutile corpo inventato dal fascismo: stavamo all’incrocio dei confini con l’Austria (che era allora Germania) e la Svizzera a fare non si sa bene che cosa. Sarebbe stato in parte corretto chiamarci imboscati, anche se quelli che si trovavano sul posto l’8 settembre furono tutti deportati in Germania. A me ripugnava correre il rischio di dare la vita per una causa in cui non credevo. Con le guardie svizzere avevamo fraternizzato e chi come me non fumava scambiava le sigarette di ordinanza con il cioccolato. Ci turbava l’idea che da un momento all’altro dovessimo spararci addosso, quando si spargevano le voci che stessimo per invadere la Svizzera.
Comunque, quando nel febbraio del 1943 morì mio padre, siccome avevo tre sorelle minorenni, sempre lo zio generale riuscì a farmi avere una lunga licenza, quindi il 25 luglio ero a Roma. Mi trovavo a casa di alcuni parenti sfollati che abitavano in via Properzio, a due passi dal Vaticano. Siccome abitavamo vicino alla stazione, zona bombardabile, e mia madre e le sorelle avevano lasciato Roma, alcuni parenti mi avevano invitato a stare presso di loro.
Ricordo di essermi unito ad un corteo che andava verso piazza Venezia, eravamo tutti entusiasti e a un certo punto io, imitato da altri, mi misi a gridare: "Fuori i tedeschi dall’Italia!”. Nell’euforia provocata dalla caduta del fascismo, tutti dicevano: "Adesso la pace!”. Era il Duce che aveva voluto la guerra, ora che era caduto a che pro continuarla? Questo era un sentimento molto forte e diffuso. E poi ricordo che alcuni dissero: "Andiamo a rendere omaggio alla statua di Ciceruacchio”, stabilendo così un rapporto ideale con il Risorgimento. Arrivammo a piazza Venezia, dove invano si tentò di sfondare il portone.
Quell’ottimismo, per quanto comprensibile, era però fuori luogo visto che c’erano ancora i tedeschi. Il giorno dopo -mi sembra- vidi una lunga colonna tedesca che attraversava Roma e molti commentarono: "Ecco, i tedeschi se ne stanno andando”. Si sparse perfino la voce che Hitler si fosse suicidato.
Poi arrivò l’8 settembre e l’armistizio fu confuso con la pace. Il film con Alberto Sordi "Tutti a casa” forse non è un capolavoro dell’arte cinematografica, però interpreta bene quel momento di confusione. Quelli che avevano già un minimo di coscienza politica erano preoccupati: ora viene il brutto, comincia il peggio.
Allora con un gruppetto di amici, alcuni ex compagni di scuola del liceo Tasso, cominciammo a pensare che non si poteva restare indifferenti.
Il Tasso era un liceo frequentato da molti protoantifascisti, ma ci andavano anche i figli del Duce. Ci andava anche Andreotti, che da universitario dirigeva "Azione Fucina”, giornale degli studenti cattolici. Lo incontrai per strada e mi congratulai con lui perché aveva sospeso le pubblicazioni con la motivazione che non esistevano più le condizioni per continuare. Ricordo un altro incontro che mi colpì molto: per via Piave una ragazza mi afferrò per le braccia piangendo: "Ma fate qualche cosa!”
Insomma, con alcuni amici ci mettemmo in giro a cercare collegamenti e armi. Correvano voci di tutti i tipi, ma in generale c’era la sicurezza che gli alleati stessero per arrivare. Si sentiva dire: "Sono sbarcati a Fiumicino”, invece stavano ancora a Salerno: "Ma che ci vuole da Salerno a Roma!”.

Quando ricomparvero i fascisti in camicia nera che scorrazzavano per Roma fu per me un colpo. Dopo il 25 luglio, con tutte le critiche che si potevano fare -e avevamo fatto- a Badoglio, sembrava che il fascismo fosse davvero finito. L’impressione, invece, che il tempo scorresse a ritroso, che quanto si credeva sepolto non lo fosse affatto, era terribile. Un giorno ero davanti al Ministero della marina, in quella che si era chiamat ...[continua]

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