Mattia Morretta, psichiatra, è socio fondatore dell’Associazione Solidarietà Aids di Milano.

Come affronta il dolore e la morte il malato di Aids?
Direi che l’aspetto del confronto col dolore e con la morte, con la malattia e con il senso della vita, è comunque inevitabile nella condizione della sieropositività. E’ implicito nella situazione per una serie di circostanze particolari che rendono appunto impossibile non avere certi pensieri e certe riflessioni. Da un certo punto di vista è l’estremizzazione o l’enfatizzazione di una condizione esistenziale comune, della condizione di tutti gli uomini. E’ una questione che fa parte del fatto stesso di essere uomini, di avere coscienza della vita e della morte, almeno una coscienza minima del fatto di essere vivi e di sapere che c’è la morte come termine, che nella vita ci sono malattie, sofferenze, difficoltà, oltre che piacere, benessere, felicità. L’Aids, per certi aspetti, è come un’imposizione a non poter fingere, a non poter ignorare che comunque esistono certi interrogativi, certi problemi da affrontare; tutto questo in una cultura, in un contesto sociale, che invece tende a espropriare le persone della capacità di sentire realmente in che condizione vivono. Si viene disorientati da tutta una serie di messaggi che pongono il benessere, la felicità, il piacere, la conquista di un certo tipo di status, il godimento, in cose materiali ed esterne all’individuo che lo costringono a dipendere sempre da qualcosa che sta fuori, da qualcuno che darà indicazioni su quali sono i percorsi da seguire, gli obiettivi da raggiungere. Per capire cosa una persona vive lo deve chiedere a qualcun’altro, basti guardare la grande psicologizzazione delle difficoltà esistenziali. Questo è proprio il segno di una perdita della bussola interiore, del disorientamento, del fatto che l’identità si è spostata sempre più in superficie, verso l’esterno e non nella profondità, non dentro la persona, ma verso il rapporto col mondo esterno. Mentre la condizione dell’Aids, o della sieropositività, effettivamente pone alla persona una serie di interrogativi inevitabili e se la persona ha delle opportunità, strumenti personali, un contesto che lo consente, fa un percorso di estrema crescita, di estremo arricchimento. In una certa condizione, in quel tipo di contesto, morire diventa naturale. E ci si può anche preparare alla morte, che invece è l’ultima delle cose che oggi le persone desiderano. Secondo le indagini, le persone desiderano morire all’istante, di una morte improvvisa, non desiderano avere il tempo di prepararsi, al contrario di come succedeva una volta. Questo recupero di una possibilità di dare naturalità alla morte è una cosa importantissima. Un altro aspetto importante e specifico è che all’interno del contesto dell’Aids esistono relazioni a termine; cioè la persona sa che instaura delle relazioni che possono finire. Ma anche questo è nella normalità, è il sottofondo comune di tutte le relazioni anche se uno non se lo dice, per entrare veramente in relazione con un altro dovrebbe essere implicito che si accetta la perdita dell’altro, la fine della relazione.
Normalmente si pensa il contrario, invece qui, per esempio, questo aspetto è enfatizzato; la perdita dell’altro, oltre che di sé, è una cosa che uno mette nel conto.
Come viene vista dalla società questa malattia?
La persona che vive una malattia sufficientemente seria da mettere in discussione l’esistenza, non solo nel senso della morte, ma nel senso proprio di rapporti con gli altri e di rapporto con se stesso, vive un’esperienza che ritengo vada concepita come un’esperienza di valore. Come una specie di tesoro, e questo è uno sguardo completamente diverso da quello che c’è oggi sulla malattia, che è fallimento, colpevolezza.
E’ spaventosa l’idea di medicina preventiva che c’è oggi, un’ossessione ipocondriaca che è una forma di narcisismo, perché la cultura è malata di narcisismo, di individualismo cieco. In genere il malato viene visto come uno che ha bisogno, che perde, che si svuota, che manca, soprattutto manca della salute o della idealizzazione della salute. Oggi la normalità è la salute, ma è una normalità del tutto ideale perché nessuna persona è sana in assoluto, già da quando nasce comincia a decadere... Eppure intorno alla salute c’è un enorme consumo; c’è un’industria enorme su una pseudo normalità a cui viene contrapposta una pseudo diversità, la malattia, fino al caso estremo in cui è a re ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!