Luciano Gallino è professore di Sociologia presso la facoltà di magistero dell’Università di Torino. Ha pubblicato, tra l’altro, L’impresa irresponsabile, Einaudi, 2005. Ettore Gliozzi è professore ordinario di diritto commerciale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino.

Gallino. Vorrei partire dalla questione del rapporto tra ricchezza privata e miseria, povertà pubblica. Ho trovato un passo di J. K. Galbraith scritto nel 1958, The affluent society, la società opulenta, in cui in sostanza dice che l’economia contemporanea, l’economia di mercato, ha una tendenza implacabile a produrre un’enorme quantità di certe cose e una quantità miserabile di altre, a cominciare dai beni pubblici. Il mercato, cioè, non solo soddisfa, ma crea la domanda di determinati oggetti, merci, servizi e lascia irrimediabilmente da parte sanità, previdenza, sicurezza nel senso buono del termine, ambiente e tante altre cose.
Ecco, io credo che sia esattamente quello che sta succedendo oggi. Da questo punto di vista gli Stati Uniti sono l’epigrafe più caratteristica che si possa immaginare: un mercato formidabilmente efficiente, produttore di una immensa quantità di determinati beni, ma totalmente inadeguato a produrne altri, a cominciare appunto dai beni pubblici, la sanità, la previdenza, i trasporti.
Questo potrebbe essere un grande tema per la politica contemporanea, ma a condizione di non avere orizzonti a brevissimo termine. Oggi alla politica questo sfugge completamente.
Purtroppo il caso italiano è abbastanza speciale. Sebbene infatti ci siano stati anche in altri paesi europei governi di centro e centrodestra, in nessuno il mercato è andato tanto avanti e la povertà pubblica si è talmente aggravata come nel nostro. In Europa vantiamo quasi il peggio in termini di servizi e beni pubblici.
Come uscire da questa forbice, come ridurre il divario è l’immensa sfida per la politica. Sfortunatamente non vedo nulla e nessuno che sia in grado di raccoglierla.
Intendiamoci, il divario tra ricchezza privata e miseria pubblica non è un tema che si possa proporre all’impresa, e tuttavia ci vorrebbero nuove forme di regolazione per ridare un po’ più di razionalità ai comportamenti di una parte notevole delle imprese.
Nel portare l’impresa a ragionare in termini economicisti, ha contribuito ovviamente moltissimo la finanziarizzazione dell’economia, un fenomeno che ha una precisa data di nascita, il 1990. Gran parte dei disastri di questi anni, anche in tema di diritti, dipendono dal fatto che produrre beni e servizi è diventato poco importante, mentre è diventato supremo criterio di gestione la massimizzazione del valore per gli azionisti, il valore dell’impresa. Una pulsione che spiega anche fenomeni tipo l’ossessione per le fusioni, per le acquisizioni e altre cose del genere.
Come si possa regolare il mercato in modo che accanto al significativo livello di ricchezza, di benessere privato, ci sia un po’ meno di miseria pubblica, è un interrogativo a cui è estremamente difficile dare una risposta. Sta di fatto che in altri paesi che non sono lontanissimi, la stessa Francia, la Germania, dove il mercato è altrettanto spietato, questo distacco scandaloso tra ricchezza privata e miseria pubblica non è così accentuato come in Italia.
Gliozzi. Non credo sia sbagliato dire che i modi per garantire un po’ meno di miseria pubblica si possono forse trovare cominciando a prendere atto dei guasti creati dal processo di finanziarizzazione dell’economia mondiale avvenuto in questi ultimi 15 anni. Un processo sovente presentato, anche dalla sinistra, come una modernizzazione, che si basa su tre principi: il primo è che il fine di ogni impresa deve essere quello di fare profitti in modo da massimizzare il valore delle azioni della società dalla quale l’impresa è gestita (è questa la dottrina dello shareholders value, di origine statunitense ma rapidamente diffusasi anche in Europa). Il secondo è che i migliori giudici dell’attività delle imprese sono i mercati finanziari globalizzati e in particolare i mercati di borsa, poiché in questi mercati operano agguerriti investitori istituzionali quali i fondi comuni, i fondi pensione e le banche; questi gestiscono l’ingente mole dei risparmi loro affidati dalle famiglie indirizzandoli verso le società che, su mercati di borsa ormai internazionalizzati, appaiono le più redditizie e le meglio amministrate. Il terzo principio sul quale si basa la finanziarizzaz ...[continua]

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