Riproduttività sotto il livello di rimpiazzo
È dagli anni Cinquanta che l’India ha messo in campo azioni per ridurre la fecondità, che si aggirava attorno ai sei figli per donna alla metà del secolo scorso. Per decenni i risultati non furono brillanti, per motivi politici e operativi, radicati anche nella complessità del paese. Nel 2000, vista la scarsa efficacia dell’azione pubblica e la sostenuta crescita demografica, è stato lanciato un piano politico (National population policy, Npp), con ambiziosi obbiettivi compatibili (secondo gli estensori del Piano) con una crescita economica sostenibile, con lo sviluppo sociale e con la protezione ambientale. Si prevedeva, tra l’altro, il raggiungimento della stazionarietà della popolazione nel 2045. Le ultime proiezioni delle Nazioni Unite (variante media) spostano questa data al 2062, con 1.701 milioni contro i 1.464 di oggi. Nei fatti, l’andamento della riproduttività, quale risulta dalle indagini campionarie dell’ultimo ventennio, ha compiuto una notevole frenata, e il numero medio di figli per donna si è ridotto da 3,4 (1990-92) a 2,0 nel 2019-21, sotto il livello di rimpiazzo (2,1). Alcuni indicatori desumibili dalle ultime indagini certificano le tendenze in atto: è aumentata l’età al matrimonio sia degli uomini che delle donne, è diminuita la fecondità delle adolescenti, si è estesa la diffusione della contraccezione ed è scesa la mortalità infantile, anche se i livelli nutritivi dell’infanzia hanno mostrato scarsi progressi.
Il paese delle diversità verso una demografia più omogenea
L’India è un paese molto eterogeneo: centinaia di etnie, lingue e dialetti; forti disuguaglianze sociali e culturali, divisioni in caste, molteplici credenze e religioni. Eppure la demografia attuale appare singolarmente omogenea, almeno per quanto riguarda la fecondità, che nei maggiori stati presenta valori tra 1,7 e 2,4 figli per donna (escluso il Bihar, con 3, che peraltro conta 135 milioni di abitanti!). Nel complesso del paese, la riproduttività urbana (1,6) è sensibilmente più bassa di quella rurale (2,1) che comunque è scesa fino al livello di rimpiazzo. Diversamente dal passato, si sono attenuati i divari riproduttivi tra gruppi religiosi, in particolare quello tra i due maggiori, musulmani e induisti: ancora nel 1998-99 i primi, con 3,6 figli per donna, superavano i secondi, con 2,8; nel 2019-21 i due gruppi sono scesi a 2,36 e 1,94 rispettivamente. Valori inferiori sono quelli relativi a Cristiani (1,88), Sikh (1,61) e Buddisti (1,3). Perfino le cosiddette “scheduled castes and tribes” (cioè caste e tribù svantaggiate riconosciute), con 300 milioni di componenti, hanno una riproduttività identica a quella media del paese. Va infine segnalata una tendenza che fa ben sperare sulla possibilità di colmare la profonda distanza che ancora separa uomini e donne. Parliamo, cioè, dall’alterazione del rapporto naturale dei sessi alla nascita (105-106 maschi per 100 femmine) che dopo la legalizzazione dell’aborto (1971) e l’introduzione di tecnologie per la determinazione precoce del feto, ...[continua]
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