Flavio Lotti vive a Perugia ed è il coordinatore della Tavola della Pace.

Abbiamo letto la lettera che ti ha mandato Severino Saccardi, annunciando l’adesione della rivista Testimonianze alla manifestazione di Roma. E’ un’adesione in cui c’è un “ma”, in cui si mette in guardia dal rischio di non tener nel dovuto conto la necessità di lottare contro il terrorismo e il fondamentalismo, così come contro dittatori come Saddam, e quindi di lasciare nell’ombra l’aspetto propositivo, appunto, dei diritti umani e della democrazia. Anche noi di Una città, che pure abbiamo aderito alla manifestazione, sottolineiamo questo aspetto, a maggior ragione in un momento in cui Bush e compagnia stanno usando questi “valori” in un modo così ignobilmente strumentale, da rischiare di danneggiarli irrimediabilmente a livello planetario...
Bisogna innanzitutto fare una premessa. La manifestazione del 15 febbraio è lo specchio di un movimento di opposizione alla guerra molto vasto, non limitato a quei gruppi che storicamente, da più tempo e con più convinzione, si impegnano per la pace.
Il fatto che si ritrovino insieme tante organizzazioni, tanti soggetti sociali, politici, culturali, religiosi, così diversi, ma uniti dalla preoccupazione per quello che può accadere e dalla volontà di prevenirlo, è estremamente positivo, perché significa che l’opposizione a questa guerra non deriva affatto da una ragione ideologica. Questo è un primo dato importante da riconoscere. Pluralità di soggetti significa pluralità di posizioni. Certamente, contro questa guerra si stanno mobilitando anche organizzazioni o persone che non hanno mai fatto nulla per promuovere i diritti umani e la democrazia in Medio Oriente, in Iraq, in Cecenia o altrove nel mondo; accanto a queste, però, ci sono molte altre organizzazioni, come la Tavola della Pace che, invece, fin dalla loro costituzione, hanno fatto della promozione dei diritti umani il tema centrale del proprio impegno. Certo, ci si può sempre rimproverare di non aver fatto di più, però noi dal 1995 stiamo operando in modo sistematico, con tante iniziative, a cominciare dalla marcia Perugia-Assisi e dall’Assemblea dell’Onu dei Popoli. Abbiamo denunciato le violazioni dei diritti umani in Afghanistan molto prima dell’11 settembre, come pure l’assenza di sostegno della Comunità internazionale alla resistenza nonviolenta del popolo kosovaro, di Rugova; abbiamo denunciato il silenzio della Comunità internazionale che non ha dato alcuna risposta agli abitanti del Sudan, piuttosto che del Rwanda o del Burkina Faso, che in questi anni hanno lottato per tentare di cambiare il loro paese, o sono stati travolti da guerre atroci. Ma non voglio fare la cronologia di quello che abbiamo fatto. Noi ci impegniamo affinché la lotta contro le violazioni dei diritti umani, e cioè dei diritti sociali, economici, culturali e religiosi, che continuano a essere violati a piene mani in tantissime parti del mondo, incluse purtroppo anche parti del nostro Occidente, diventi veramente globale. Attenzione, perché questo è un problema di fondo: o la politica assume i diritti umani come un fatto globale, unico, oppure si corre il rischio fatale di asservire i diritti umani agli interessi di qualcuno o, comunque, di farli restare un privilegio di pochi.
Viviamo in un mondo in cui tutto ormai è interconnesso. In questi giorni noi stiamo decidendo, in Europa e negli Usa, della vita e della morte di milioni di esseri umani in Iraq. Sappiamo quanto pesino le decisioni che assume il presidente Bush, e poi quelle di Chirac, di Schroeder e -magari un po’ meno- anche quelle di Berlusconi. Allora, noi che siamo cittadini di questi paesi e di questa Europa abbiamo un’enorme responsabilità.
Ogni volta che eleggiamo un nostro presidente del consiglio o un parlamentare, italiano o europeo, eleggiamo delle persone che decideranno non solo del nostro futuro e di quello della nostra comunità, ma anche della vita del resto dell’umanità.
Noi siamo andati a Porto Alegre, poche settimane fa, e lì abbiamo organizzato una “audizione” della società civile mondiale sull’Europa: abbiamo chiamato rappresentanti della società civile della Thailandia, dell’Indonesia, del Brasile, del Messico, del Sudafrica, e abbiamo chiesto loro come vedono oggi l’Europa, quali relazioni esistono oggi tra i loro paesi e l’Europa, come vorrebbero che queste relazioni si modificassero, cosa vedono di positivo e di negativo in quelle attualmente esistenti, sia ...[continua]

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