Quando siete entrate in Fiat?
Rosa. Io nel ‘78, a 19 anni. E’ stata una scelta quasi obbligata, perché dopo la morte di mio padre ci siamo trovati in difficoltà, così sono partita da Lecce per raggiungere mio fratello maggiore che lavorava già qui. Quando però si è presentata l’occasione della Fiat io non volevo andarci, perché lui mi diceva che, anche se tutti declamavano quella fabbrica, per una donna non andava bene, insomma, preferiva che non entrassi. Fino ad allora avevo lavorato per due anni in una pensione per anziani, poi come collaboratrice domestica, però guadagnavo troppo poco e poi il contatto diretto con la padrona... magari ti gratifica dicendoti che lavori bene, ma tu non ti senti realizzata, vorresti qualcosa di più. Certo io non potevo scegliere molto, dato che non ho un titolo di studio che me lo permetta, l’unica era fare l’operaia. In quel momento la Fiat assumeva migliaia di persone, che sembrava non dovesse chiudere mai, e così alla fine mi sono decisa. Essendo così giovane l’impatto non è stato brutto, ero piena d’energia e mi piaceva tenermi attiva, e anche se ero alla catena di montaggio, non mi sono adeguata passivamente. Nel giro di poco ho imparato diverse postazioni, così da sostituire le persone in malattia o assenti. Avevo entusiasmo, apprendevo con facilità, mi piaceva imparare e fare al meglio il mio lavoro, ma se mi spettava qualcosa lo rivendicavo. Probabilmente questo mi ha penalizzato, perché poi nell’ ‘80 sono stata tra le prime ad andare in cassa integrazione. Il mio capo, a dire il vero, voleva farmi restare, perché nel lavoro ero precisa, forse avrà avuto pressioni da qualcuno. In quei 5 anni e 6 mesi non è che siano state tutte rose e fiori, stavo a casa con mia madre e mia sorella e mi occupavo della famiglia. I fratelli e le sorelle che lavoravano mi affidavano i figli, ero diventata la nonna del momento. Però, essendo una ragazza, fare la casalinga non era il massimo. E poi mi sentivo proprio umiliata, io che sul lavoro avevo dato, nel vedermi messa da parte, punita. Sì, perché in cassa integrazione ci mandavano chi rompeva le scatole o chi faceva mutua. In più ci chiamavano periodicamente per offrirci dei soldi in cambio del licenziamento. Ma io rispondevo: “Non ho alternative, con quei soldi ci mangio un anno, ma non ho davanti solo la vita di un anno. Voi dite che alla fine di questa cassa integrazione sarò licenziata? Licenziatemi”! Ho aspettato 5 anni e 6 mesi con lo stipendio all’ ‘80%, senza tredicesima e quattordicesima, finché mi hanno richiamato.
E il rientro come è stato?
Rosa. Mi hanno fatto andare alle presse, credo volessero spaventarmi. Molte mie compagne già il primo giorno mi dicevano: “Io mi licenzio adesso”. Io invece sostenevo che se c’era anche una sola donna che stava alle presse era perché le donne potevano riuscirci, bisognava almeno provare, che a licenziarsi si era sempre in tempo. Hanno provato e non se n’è licenziata nessuna. Certo, il lavoro per le donne era brutto, c’erano postazioni con 300 o 350 pezzi all’ora, era un movimento molto veloce, buttare la lamiera sopra la pressa e poi schiacciare. I primi giorni una non si accorge, ma col passare del tempo quelle vibrazioni possono portare dei danni, io ad esempio non posso documentarlo, ma so che è per quello che son stata molto male con la prima gravidanza e dopo mi è venuto un soffio al cuore. Fatto sta che la mia domanda di spostamento per motivi di salute è stata accolta senza che mi fosse richiesta nessuna documentazione. E poi era un lavoro vergognosamente noioso, ripetitivo e stupido. Per non impazzire -dato che per il rumore ci vogliono i tappi, quindi non si può neppure parlare con una collega- io mi guardavo il pezzo analizzandolo punto per punto; se c’erano un bollino o una righina prodotti dallo stampo chiamavo subito, tanto che spesso i capi, sapendo che ero così pignola, mi spostavano perché gli fermavo la linea.
Caterina. E’ sempre così, le persone come noi, che magari reclamano i propri diritti, sul lavoro però sono molto attente, molto più di chi fa il crumiro per farsi vedere bello dal capo, ma non gliene frega niente se il pezzo va bene o no.
Tu Caterina come sei entrata?
Caterina. Io sono calabrese, di un piccolo paese sul mare, Nicotera Marina. Quel mondo mi stava stretto, ma non avevo molte alternative, perché non avevo voluto studiare. Mio ...[continua]
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