Fabrizio Tonello, vecchio amico del giornale, ci ha inviato questo intervento sulla depressione a partire dall’intervista a Franco Lolli ("Una riga sul prato”) pubblicata nel numero 212 (aprile 2014).

Come comincia? Quando te ne accorgi? Franco Lolli dice quando "il mondo si svuota, non è più interessante”. È vero, a me è successo all’improvviso, durante una seduta di laurea, qualche anno fa: mi sono accorto che non solo non mi interessava seguire quello che stava dicendo il candidato, ma nemmeno avevo voglia di fare domande per alzare un po’ il tono della discussione. Per chi non lavori all’università è bene precisare che la discussione delle tesi con cui si ottiene una laurea triennale di area umanistica è, nella stragrande maggioranza dei casi, inconsistente. Un pretesto per i successivi esercizi di goliardia con amici e parenti, nelle città dove la tradizione è presente. Non è colpa dei laureandi, né dei docenti, né della legge n. 30 del 2000, più nota come riforma Berlinguer: si tratta piuttosto di una serie di concause che hanno trasformato quella che adesso si chiama "prova finale” in un balletto in cui tutti vogliono andarsene al più presto: lo studente, i genitori che assistono, i professori che hanno molti altri impegni.
Per anni, ho tentato di reagire: intervenivo, facevo domande, resistevo tenacemente ai tentativi dei colleghi di far assegnare 5 punti più della media a candidati mediocri e 3 punti in più a candidati che avrebbero dovuto essere bocciati. Ricordo una discussione dove un laureando aveva fatto una tesi sulla catena di negozi giapponesi Muji: si era presentato con un look minimalista, pseudogiapponese, vestito completamente di grigio antracite, dalla camicia ai calzini, e senza cravatta. Quando però gli chiesi il perché del successo di Muji in Europa cominciò a balbettare delle insensatezze e il relatore, seduto accanto a me, mi diede un’energica gomitata per farmi smettere. A porte chiuse litigammo e il collega non mi ha più rivolto la parola.
Il giorno in cui la mia depressione è affiorata in superficie, invece, non ho litigato con nessuno: sono stato rigorosamente zitto dall’inizio alla fine, ho firmato i verbali, me ne sono andato quasi senza salutare. Lolli dice: "Ritirarsi dai rapporti sociali, tendenza all’isolamento”. Certo, funziona così, ma occorre aggiungere che il mondo non te lo permette. Se andassi a tutte le riunioni di commissioni, corsi di laurea, dipartimento, ateneo, starei in università dal lunedì al venerdi, dalle 9 alle 19, più il sabato dalle 9 alle 14. A molte riunioni, ovviamente, non vado, ma questo, come potete facilmente immaginare, ha un prezzo nei rapporti con i colleghi, rapporti da cui dipendono totalmente le prospettive di carriera: anche se sei un premio Nobel, alla fine è il consiglio di Dipartimento che decide di "chiamarti”, oppure di non chiamarti, a una certa posizione.
Il mondo non ti permette di stare a letto a guardare il soffitto, che è quello che vorresti fare quando la paralisi ti colpisce. Sì, perché di paralisi si tratta: gli obblighi quotidiani diventano una corvée insopportabile, compri i giornali e non li leggi, ricevi la posta e non la apri, non inizi alcun progetto, l’idea per un articolo scientifico non viene mai messa sulla carta, la ricerca che avresti voluto iniziare sta lì fino a che l’intuizione che avevi avuto per primo non viene sviluppata e pubblicata da qualcun altro, mesi o anni dopo. Vai in aula, perché ci devi andare, ma la gioia del rapporto con gli studenti è scomparsa.
E poi ci sono le persone che ami. I depressi, scrive Lolli, lamentano "nessuno mi capisce”. Io non lo dico, ma è vero che chi ti sta vicino può capire più o meno della tua malattia secondo la sua sensibilità, le sue intuizioni, secondo il lavoro che tu fai per non cadere nel buco nero. Quando si è tristi non necessariamente si deve passare la giornata chiusi nella propria stanza e immusoniti: si può fare anche uno sforzo per mostrarsi normali, andare a cena senza fame, farsi la barba invece di non farsela. Certi giorni ci riesci, certi giorni non ce la fai. A volte chi ti sta vicino si allontana, a volte ti capisce e ti sostiene. Io sono fortunato, molti altri no: chi non è depresso tende a scambiare la malattia per comportamenti capricciosi, pigri, infantili. Anni fa, una collega con figli che aveva appena letto un articolo su un settimanale femminile se ne venne fuori con un giudizio tranchant: "Io non ho tempo per essere depressa”. Lo stigma sociale viene dal non-riconoscimento della malattia, dal pensare ai depressi come a dei lavativi, dall’ossessione produttivista di una società per cui conta soltanto il contributo che dai alla "crescita” e che esorcizza i fantasmi della disoccupazione di massa colpevolizzando chi non lavora (o non lavora come dovrebbe).
Uscito da quella seduta di laurea, andai dal mio medico di base che mi diede il nome di uno psicologo. Il primo appuntamento fu lungo: per esempio avevo da raccontargli l’irritabilità che accompagna la depressione e provoca comportamenti che sarebbe meglio evitare. Abbandonare le file al supermercato o in banca solo perché ci sono ancora quattro persone prima di te. Litigare sul treno con un tizio che fuma dove è vietato, anche se il tizio in questione ha un fisico da rugbista e puzza d’alcol. L’ho fatto un paio di volte, ma siccome il buon dio protegge non solo i pazzi e i bambini ma anche i nati sotto il segno dell’Acquario nella seconda decade, in entrambi i casi non ci sono state conseguenze. Da allora, il mio scetticismo materialistico/illuminista sui segni dello Zodiaco si è incrinato: se cercate "Acquario” su Google vi compare tra i primi risultati una pagina dove si  dice: "La permalosità è peculiare del segno; l’individuo cerca sempre di affermare la sua libertà d’essere e d’agire”. Una diagnosi migliore di molte di quelle che ho sentito.
Più costoso il tentativo di difendere una giovane rom dai comportamenti sprezzanti di un paio di poliziotti alla stazione di Bologna: l’intervento finì con un "decreto penale di condanna” che per la legge italiana può essere emesso senza processo e senza sentire l’accusato. Per fortuna l’imputazione era solo "rifiuto delle generalità” e non "resistenza a pubblico ufficiale”, quindi riuscii a mantenere pulita la fedina penale: pagando un avvocato che portasse la faccenda in Cassazione, naturalmente. La parcella fu proporzionale al costo di tre gradi di giudizio.
E poi: litigare all’ufficio postale, con le signorine del call center, con il controllore sul treno… Sono tutt’ora convinto di aver avuto assolutamente ragione nel 90% dei casi, ma il punto non era (non è) questo: viviamo in un mondo burocratizzato e indifferente dove i litigi con la rotellina (umana) della macchina che ti sta vessando non portano a nulla. Chi sta al telefono o allo sportello non ha nessun potere di risolvere la situazione e quindi prendersela con lui è inutile e autolesionista (poi ci sono anche gli stronzi fatti e finiti, ma non più che nella media generale della popolazione).
Avrei dovuto capire che il terapeuta non faceva per me quando, dopo 90 minuti di monologo, disse soltanto: "Prenda questo e torni il mese prossimo”. Il "questo” era uno degli antidepressivi più diffusi, che ha qualche controindicazione su cui non mi soffermo. Nuova visita, nuova ricetta. Nuova visita, nuova ricetta. Nuova visita, nuova ricetta. Alla fine dell’anno i risultati erano zero, ma il mio interlocutore continuava a sperimentare su di me pillole di vario tipo, senza pronunciare una parola che non fosse: "Allora, ci potremmo vedere il 15 del mese prossimo se per Lei va bene”. A dire la verità, una volta si sbilanciò a dirmi: "Qualche volta un po’ di sano menefreghismo è la cosa migliore”.
Franco Lolli scrive che in Italia "l’uso dello psicofarmaco è ai limiti, anzi ha superato il livello dell’abuso”. Io posso parlare solo per me: non so se sia "abuso” quello di prescrivere lo Xanax o il Cymbalta a chi è perfettamente d’accordo nel provarli, quello che trovo sconcertante è il totale disinteresse per parlare, discutere, approfondire. Dopo il primo terapeuta sono passato a un secondo e poi a un terzo. Quest’ultima è una signora con figli, simpatica, disponibile, sicuramente competente.
Però non parla. Prende pagine e pagine di appunti ma è altrettanto ermetica dei suoi predecessori: la chimica è l’unico orizzonte del rapporto che c’è fra noi. È premurosa nel chiedermi gli effetti di ciò che mi prescrive, ma non ha fatto una domanda sul rapporto con la mia compagna, con gli amici, con il mio lavoro, in due anni che ci vediamo.
"Nella depressione c’è una certa difficoltà nel prendere la parola” [da parte del paziente] scrive Franco Lolli. Certamente non è il mio caso (forse sono solo triste e non depresso, due categorie che Lolli giudica molto diverse tra loro). Io parlo, e parlerei anche di più se ci fossero delle risposte (o delle domande di approfondimento), ma non ci sono. Nessuno mi ha mai chiesto, se non del tutto en passant, dei miei genitori, del rapporto con altri membri della famiglia, o delle soddisfazioni/insoddisfazioni incontrate sul lavoro. Molte cose le ho tirate fuori spontaneamente, altre, forse, richiederebbero uno scavo più profondo. Per il momento, ho soltanto una nuova ricetta.
In attesa di trovare un interlocutore ho preso una decisione: tutte le scatole di pillole andranno nel contenitore "farmaci scaduti” della farmacia più vicina.