I quattro casi presi in esame sono, abbastanza ovviamente, il caso Olivetti, il caso Mattei, il caso Ippolito, il caso Marotta: cioè l’elettromeccanica e l’elettronica; il petrolio e la chimica; il nucleare; l’Istituto Superiore di Sanità. Tra qualche anno potremmo dover aggiungere il caso Agnelli, o Marchionne, e la metalmeccanica, il settore a cui l’elettronica fu consapevolmente sacrificata da un grande dirigente privato, Valletta, e da un alto dirigente pubblico, Visentini, che si trovarono a decidere il futuro della Olivetti dopo la morte del fondatore.
Non condivido particolarmente il taglio del libro che, però, è un utile riassunto per chi, nello sfacelo di oggi, si fosse perso le puntate precedenti. Nei primi anni Sessanta i neolaureati tecnici si trovavano a scegliere, letteralmente, tra offerte di grandi aziende pubbliche e private, tutte in ascesa, tutte con grandi prospettive, per sé e per i nuovi assunti, con settori di ricerca importanti e in espansione, all’avanguardia nel loro campo. Nel giro di un decennio, quale che fosse stata la scelta, si ritrovarono quasi tutti a vendere saponette, perché le aziende erano state bloccate, snaturate, i rapporti interni sconvolti, i laboratori chiusi, i diplomati riciclati e i laureati lasciati a marcire, perché licenziare in blocco ingegneri, fisici, chimici, non fa bene all’immagine. Pensavano di avere scelto, ma tutte le strade portavano alla stessa casella del gioco dell’oca. I casi però sono molto diversi e meritano qualche considerazione aggiuntiva.
Era diverso il rapporto tra ricerca scientifica e attività produttiva -centrale alla Olivetti, o nella chimica fine, o nei Laboratori riuniti studi e ricerche dell’Eni, laterale nella politica del petrolio; era diverso lo spessore culturale, la potenzialità innovativa della proposta aziendale- altissimo alla Olivetti; fu diverso il modo della chiusura, della scomparsa dell’attività di ricerca avvenuta, nei vari casi, per morte e decisione dei vertici della classe dirigente, per omicidio, per conflittualità interna e vie giudiziarie. Per inquadrarli bisogna partire da un’osservazione che a suo tempo è stata fatta da uno dei maggiori studiosi dello sviluppo e dell’arresto dello sviluppo italiano: Augusto Graziani. I piani di sviluppo delle grandi aziende italiane pubbliche e private non erano sommabili. Per realizzarli tutti ci sarebbero volute percentuali di crescita più alte di quelle cinesi, per decenni. Le merci oltre che produrle bisogna venderle a qualcuno, in patria o fuori. E gli stati sovrani si difendono, con le buone o con le cattive. Olivetti doveva vendere le sue macchine per scrivere con la "margherita” negli Stati Uniti, e la Ibm la bloccò con infiniti cavilli sui brevetti, come ci ha ricordato negli anni scorsi Angelo Meo; Mattei voleva rompere le barriere tra i blocchi, comprare dai russi, collaborare con gli iraniani, cooptare i comunisti al governo, e Kissinger gli rivolse le stesse minacce che rivolgerà pochi anni dopo ad Aldo Moro (è un punto che non conoscevo e che Pivato riprende da Gentiloni Silveri, L’Italia sospesa). Un paese relativamente piccolo non può sviluppare tutti i settori industriali contemporaneamente.
Questo non vuol dire che non ne possa sviluppare nessuno, come sta finendo con l’accadere; né che debba chiudere la ricerca nei settori in cui non ha aziende leader mondiali; né che la ricerca, scientifica e no, debba essere per forza legata a un’industria nazionale.
La grande ricerca medica e biologica in Italia è nata e si è sviluppata in piccole scuole universitarie, in cattedre neppure corrispondenti nel nome alla realtà. La Levi Montalcini e Dulbecco vengono dalla classe di Giuseppe Levi, padre di Natalia Ginzburg, che era, sull’annuario, professore di zoologia. La fisica italiana ha avuto il suo massimo splendore a via Panisperna, in una stretta strada in salita che in ...[continua]
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