Riportiamo parti del verbale di un seminario svoltosi presso l’Aaster di Milano. Partecipano Giuseppe De Rita, presidente del Censis, Guido Bolaffi, capo- dipartimento del Ministero degli Affari Sociali e Aldo Bonomi, direttore dell’Aaster.

Bonomi. La discussione può svilupparsi innanzitutto intorno a cosa significhi per il nostro impegno di animatori dello sviluppo locale il passaggio da un’azione esclusivamente orientata all’economico a un’azione a fianco della pubblica amministrazione per creare momenti di interconnessione nel sociale, nelle forme di convivenza, nella costruzione di reti tra città.
Questa sfida ci era stata lanciata tempo fa dallo stesso De Rita: “Forse si è chiuso il ciclo in cui bisognava fare animazione nelle aree deboli e occuparsi solo dei problemi dello sviluppo; nelle città si sta delineando lentamente un embrione di classe dirigente; si può cominciare a fare accompagnamento tramite una figura di ricercatore-operatore di comunità”.
Secondo me, era una pista di lavoro che aveva a che fare con il problema dell’anomìa, quell’assenza ormai di norme sociali provocata dall’incapacità di una serie di istituti intermedi, dai partiti alle grandi agenzie culturali, di metabolizzare i grandi processi di mutazione che l’economico e la tecnica producono. Ci sembrava che lavorare attorno all’anomìa potesse orientare un ulteriore sviluppo del nostro lavoro di ricerca sociale.
Due dubbi. Lo stesso De Rita ci disse allora: “Ma quando fai le missioni di sviluppo il successo o l’insuccesso di un’operazione riesci a quantificarlo, hai dei parametri per misurarlo. In un’area a sviluppo difficile si presume che hai avuto successo se avrai formato alcune imprese giovanili, se avrai lasciato dei beni, se avrai prodotto inclusione. Se tu, invece, lavori su una forma astratta come l’anomìa, quali sono gli indicatori di successo?”.
L’altro, più che un dubbio è una messa in guardia dai fraintendimenti intorno al nostro successo. C’è oggi un’aumentata attenzione su questi temi, che si può ricondurre essenzialmente al fatto che ormai questa società deve produrre artificialmente ciò che la tiene insieme; deve, cioè, pagare operatori che vadano a ricostruire elementi di relazione sociale. E’ una valutazione un po’ triste, ma frutto proprio della crisi profonda dei luoghi intermedi che facevano da sé, gratuitamente, interconnessione sociale.
Il secondo punto di discussione è la crisi del welfare. Uno dei temi su cui abbiamo molto ragionato in questi anni dentro l’Aaster è stato proprio la transizione dal fordismo al postfordismo, che vede imporsi l’egemonia culturale del lavoro autonomo o indipendente. Non c’è dubbio che se la forma del lavoro diventa individuale, se il soggetto corre libero nella gara delle opportunità, vengono meno anche quegli elementi di solidarietà, di azione collettiva che prima, automaticamente, erano incorporati dentro il lavorare. Non è un cambiamento da poco. Legato a questo, poi, la forma dell’impresa sociale, del cosiddetto terzo settore, che ripropone alcuni comportamenti solidaristici dentro la crisi del welfare, ci pare un tema importante su cui ragionare.
De Rita. Se abbiamo avuto un potere negli anni 70 e 80, era perché abbiamo cantato la saga della piccola impresa e del localismo. Oggi, la saga è quella della competizione, dell’organizzazione, dell’efficienza a tutti i costi, della mondializzazione: è la saga di Maastricht. Una saga che non si sa dove nasca, se a Wall Street o alla Borsa di Londra o in quella di Tokyo, ma che alla fine arriva pure nella nostra piccola aziendina di 15 persone, arriva pure nel più piccolo paese del Sud Italia, perché, come ricorda spesso Aldo, questo è il vero potere, il potere delle parole, il potere dei concetti, il potere del racconto. E il racconto di oggi è quello dei “parametri di Maastricht”. Può darsi che io sia vecchio e che questa saga sia la migliore del mondo, ma non ne sono convinto. Resta il fatto che quella della competizione, dell’efficienza globale, della mondializzazione, insieme a quella della comunicazione di massa, sono le due saghe che attualmente vengono raccontate. Tutto questo significa, da una parte, una cultura di massa che in assenza di conflitto sociale, di dialettica sociale crea populismo e potere dei Cesari, potere della televisione e annullamento dello spirito critico, dopodiché nulla di strano che in piazza a Napoli, a uno che dice: “A chi l’Italia?”, loro, come una massa inerte, rispondan ...[continua]

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