Aldo Bonomi, sociologo e ricercatore, vive a Milano.

Il tema di cui vorremmo parlare è sinistra e questione settentrionale…
Intanto, credo vada fatta una considerazione desolante. La questione settentrionale rimanda in primo luogo al cambiamento strutturale delle forze produttive e della composizione sociale, entrambe profondamente mutate, dagli anni ‘90 in avanti, dalla globalizzazione. Ebbene, la sinistra aveva tutti gli strumenti culturali, metodologici, addirittura di tradizione, per interpretare il cambiamento. Pensiamo alla scuola di pensiero dei Quaderni rossi, a Torino, che fu capace di leggere i grandi cambiamenti, di individuare nell’operaio massa fordista il cuore di una nuova composizione sociale. Sarebbe stato “facile”, nella misura in cui si applicava quel metodo, capire quello che stava succedendo, invece nulla, non ha capito nulla. Come è possibile che coloro che sapevano tutto della fabbrica, della catena di montaggio, del rapporto fabbrica–territorio (sto parlando dei grandi temi che sono arrivati a compimento negli anni ‘70, ’80), a un certo punto si siano trovati completamente spiazzati di fronte al nuovo cambiamento?
Questo è il primo, grande interrogativo, e devo dire che non ho mai visto tracce di ripresa. Anzi.
C’è infine un terzo effetto, oltre alla destrutturazione delle precedenti forme produttive e al mutamento della composizione sociale, ovvero il fatto che le persone non si riconoscono più in ciò che gli era abituale ed è forse questa la questione più delicata, dove la sinistra “va più in palla”, perché è più un effetto antropologico, che infatti si può interpretare con la teoria di Ernesto de Martino dell’apocalisse culturale.
Ma come spieghi concretamente questa incomprensione?
In primo luogo perché invece di guardare in basso, si è guardato in alto. E questo ormai avviene da molto tempo. La sinistra ha fatto della questione settentrionale una pura questione politica. Siccome quello che stava avvenendo al Nord veniva quotato al mercato della politica dal leghismo e poi dal berlusconismo, la sinistra ne ha fatto una pura questione di scontro politico–ideologico, attestandosi su una linea di conservazione, di conservazione innanzitutto della “forma dello Stato”, messa in discussione in maniera tumultuosa, disordinata, dal leghismo e dal berlusconismo e, ancor più grave, di attaccamento a “una dimensione di classe” ormai sopravanzata da quelle dell’individuo e della comunità.
Si aggiunga infine che in tutto questo si è inserita pure la transizione verso l’Unione europea, sostenuta fortemente dalla sinistra, ma con una battaglia tutta verticistica, e forse possiamo cominciare a capire perché in alcuni territori la sinistra sia al 10–20%, cioè quasi scomparsa.
Un’apocalisse politica, oltre che culturale…
Io continuo a dire che era facile capire, forse perché ho sempre studiato partendo dal punto di vista della composizione sociale.
Negli anni ‘90 cosa è successo? In primo luogo la crisi profonda che ha investito quel po’ di grandi imprese che noi avevamo. Alcuni grandi gruppi fordisti non riescono a reggere l’urto della globalizzazione, della competizione internazionale. Si smantella l’Iri... Sono grandi cambiamenti che hanno come epicentro alcuni territori: Genova, Torino, Porto Marghera, non a caso luoghi emblematici dell’operaismo italiano, in cui si è formata la cultura della sinistra.
Il secondo grande processo è quello che disarticola i distretti produttivi, la cosiddetta “terza Italia”, che perde il vantaggio competitivo della svalutazione e del costo del lavoro, i vantaggi, cioè, su cui era cresciuto parte del capitalismo italiano. Io ricordo che la prima volta che ho sentito parlare di globalizzazione, ci tengo sempre a dirlo, non fu a una riunione di no-global, ma a Pistoia, nel 1989, a un incontro della Confartigianato, in cui un gruppo di artigiani del tessile dissero che erano sotto stress per la globalizzazione. Era iniziata la competizione, sul costo del lavoro innanzitutto, dei paesi dell’Est. Ed erano stressati per questo, non per una questione ideologica.
Quindi oltre ai grandi gruppi, entra in crisi il modello produttivo dell’economia diffusa, del capitalismo molecolare.
Tutto questo cosa produce sulla composizione sociale? Produce tre soggetti sociali che io ho chiamato gli orfani del fordismo, gli stressati e gli spaesati.
I primi: allora una delle mie prime ricerche, che venne commentata dalla Rossanda, che ne discusse anche c ...[continua]

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