Michele Ranchetti
Il libro ora tradotto in italiano si compone della fusione di due stesure: l’edizione originale in ebraico, edita nel 1957, e la versione inglese, edita in America nel 1973, che ne è un ampliamento e un rimaneggiamento. Non credo si disponga del testo ebraico per le variazioni e le aggiunte, né di un eventuale terzo testo. Per questo si è deciso di tradurre il testo inglese, così come è stato fatto per l’edizione francese (che è molto scadente), e per l’edizione tedesca, che però ha confrontato il testo inglese con l’edizione parziale ebraica. Questo confronto con l’edizione ebraica è stato fatto anche per l’edizione italiana. Rimane da dire che Scholem ha solo rivisto la versione inglese, ma non ne ha fatto la traduzione perché in inglese scriveva piuttosto male. Scholem poi conosceva bene il tedesco, ma non era un grande scrittore; credeva di essere un grande poeta, ma non lo era. Non posso, d’altra parte, giudicare la sua conoscenza dell’ebraico; quel che posso solo dire è che Scholem, dopo l’emigrazione in Israele, ha sempre distinto, come si vede bene in Scholem/Shalom, uno straordinario piccolo volume, fra il pubblico israeliano e quello tedesco, ai quali diceva le cose in modo assai diverso. Il primo segno della differenza fra le due versioni del libro su Sabbetay non è da poco ed è già nel titolo: nel titolo originale ebraico la qualificazione ‘Messia mistico’ non figura, il titolo è Sabbetay Sevi nel suo tempo.
Dopo aver ricevuto questo testo, Leo Strauss, nell’ultima lettera che scrisse a Scholem prima di morire, nel ‘73, definisce Sabbetay come l’‘apostata deificato’, che mi sembra una giusta definizione della figura di Sabbetay, ma non credo che, con l’aggiunta della qualificazione ‘Messia mistico’, Scholem abbia ceduto ad esigenze editoriali; il mutamento del titolo si deve, forse, a semplificazione. Ma questa semplificazione non è stata senza conseguenze negative.
Ho promosso l’edizione italiana dopo quasi cinquant’anni dall’edizione originale in ebraico, e dopo una grande massa di studi e approfondimenti del tema, apparsi soprattutto dopo l’edizione inglese, che potrebbero far considerare questo libro un’opera superata, per usare un’orrenda espressione. E’ un dato di fatto che su Sabbetay, e soprattutto sul movimento sabbatiano, si hanno ora studi critici sui documenti, che possono qua e là inficiare la ricostruzione di Scholem, anzi la sua stessa costruzione. Tuttavia, è altrettanto vero che nella cultura, soprattutto in quella tedesca, è opinione condivisa che, malgrado errori, omissioni e fraintendimenti, quest’opera di Scholem rimanga il suo capolavoro letterario e qualsiasi aggiornamento non possa che partire dalla conoscenza diretta di questo testo. In secondo luogo, e questo è ancora più rilevante, quest’opera di Scholem -come tutta la sua opera, in gran parte in ebraico e non ancora raccolta né tradotta- si rivela col passare del tempo come una delle più straordinarie testimonianze della vita culturale del secolo scorso; anzi, come il percorso esemplare in quella cultura da parte di uno studioso che è anche un ebreo, è anche un sionista, è anche amico di grandi, Benjamin in particolare; che è nemico/amico di Rosenzweig, con lui il maggior confronto teoretico, e di Buber; che discute il sionismo in tutte le sue forme; che partecipa ad esso, da seguace a critico ad avversario; che non si accontenta né si redime in un’attività di erudito, per finire esule da tutti, molto venerato, e non amato, in una terra che non sa più conoscere.
Sabbetay Sevi è l’opus magnum, ma anche un esempio e un momento della ricerca continua di Scholem, che più che una ricerca storica è l’illustrazione storica di una tesi in cui si può, forzando, ridurre tutta la sua grande opera e anche la sua biografia. Il carattere autobiografico della sua immensa produzione, infatti, può rilevarsi in ciascuno dei suoi scritti e, naturalmente, anche in questo suo scritto maggiore. Leo Strauss, nella lettera prima citata, si complimentava con lui per aver scritto “una vera biografia del bios, non solo di Sabbetay, ma, in un certo senso, di tutto il nostro popolo”.
La tesi di Scholem, secondo me, trova la sua espressione più concisa, più chiara, nello scritto del ‘37 già indicato da Bidussa. Curiosamente questo testo chiave è stato tradotto in tedesco solo nel ‘92, ossia dopo la morte di Scholem. Anche qui, ma in misura molto maggiore, il titolo originale subisce nella versione tedesca un frain ...[continua]

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