Siamo molti, qui in Israele, depressi e senza parole di fronte all’esplosione d’odio brutale del sabato nero del 7 ottobre. Certo si può cercare di spiegare (ma per carità non giustificare!) tale scoppio con le circostanze storiche e politiche: la prolungata pentola a pressione della Striscia ha permesso al fanatismo di Hamas d’impadronirsene, di trasformarla in base di attacchi di missili, di sfruttarne la poverissima popolazione e di lanciare a sorpresa una tale azione chiaramente suicida di migliaia di terroristi (portando all’estremo la strategia dei suicidi singoli negli autobus della seconda Intifada dei primi anni del Duemila), credendo così di cambiare le carte in gioco e sbloccare l’impasse. Soprattutto noi laici, liberali e democratici di sinistra ci ritroviamo nelle frasi di Gad Lerner: “La società palestinese e la società israeliana sono entrambe lacerate dalla crescita al loro interno dei nemici della laicità e della democrazia, tali da spezzettarle in compartimenti stagni che neanche un conflitto all’ultimo sangue sarà in grado di ricompattare. È questo il dramma della guerra che stiamo vivendo: la sottomissione delle questioni sociali e nazionali alla supremazia del fanatismo identitario mascherato da fede religiosa”.

Un professore dell’Università di Betlemme, Mazin Qumsyeh, palestinese-americano, che si definisce un beduino nello spazio cibernetico, scrive da molto tempo in difesa della Palestina e dei palestinesi, sotto l’occupazione israeliana dal 1948 in poi. Dalla mia posizione d’opposizione non-sionista in Israele, purtroppo gli davo ragione al 90%: lui, da laico, non è certo favorevole ad Hamas e nel passato aveva condannato gli atti di terrorismo. Ma ecco che dal 7 ottobre non ha condannato neppure indirettamente le atrocità di Hamas nei villaggi e nelle cittadine ebraiche attorno alla striscia di Gaza, anzi ha insinuato che sia tutta malinformazione e manipolazione “sionista”. In quattro lettere aperte ai residenti arabi nella striscia, ai sionisti in Israele, agli umanisti nel mondo e infine ai suoi compatrioti americani, neppure una parola sui 1.200 israeliani trucidati e i 240 ostaggi rapiti da Hamas in quello che non si può definire altro che un vero e proprio pogrom del 7 ottobre. Invece definisce genocidio i bombardamenti disastrosi, l’azione militare israeliana, il blocco prolungato dell’acqua potabile, del cibo, dell’elettricità e del petrolio, e poi l’evacuazione di più di mezzo milione di abitanti del nord della striscia e i morti palestinesi, oggi già quindicimila: tali azioni certo non possono essere giustificate dalla brutalità dell’attacco di Hamas nel “sabato nero”. Il titolo delle sue lettere aperte è “Resistenza popolare” e finiscono sempre con: “Resta umano”.
Devo quindi, quasi due mesi dopo, cercare di chiarire, anzitutto a me stesso, la situazione così complessa sia sul piano morale sia su quello pragmatico.
Se il pogrom spaventoso del “sabato nero” è “resistenza popolare”, così si dovrebbero ridefinire anche i pogrom nell’Europa dell’est e i farhod nei paesi arabi, che sono stati espressioni dell’antisemitismo, del razzismo e del fanatismo, latente purtroppo ancora, e spesso istigato e sfruttato da governi o movimenti politici e religiosi, sia cristiani sia mussulmani, sia di destra sia di sinistra -come Erdogan, che equipara Hamas ai partigiani e alle lotte d’indipendenza. Gli oppressori definiscono sempre “terrorismo” gli atti di resistenza, ma i partigiani mai attaccano o trucidano famiglie intere e inermi, bruciano persone vive, rapiscono vecchi e bebè. Chi lotta per la propria indipendenza non può rinnegare la legittimità di uno stato per gli ebrei (come fa Hamas) o per i palestinesi (come fa la destra messianica e nazionalista israeliana) e sperare che la terra santa resti tutta solo per chi vince. Il mondo occidentale è spazzato da ondate di manifestazioni anti-israeliane che rispecchiano purtroppo caratteri antisemiti: qui in Israele tutti noi ebrei abbiamo riconosciuto negli eventi del sabato nero gli elementi esasperati e orrendi dei pogrom avvenuti intorno al 1900 che hanno fatto maturare il sionismo. Questo -purtroppo solo dopo l’Olocausto prodotto sal nazismo durante la Seconda guerra mondiale- ha portato alla fondazione dello Stato di Israele, proprio come soluzione all’antisemitismo.
Certo Netanyahu ha per anni favorito, tra un giro di violenza reciproca e l’altro, la divisione tra la striscia di Gaza e la Cisgiordania: l’una, poverissima, affollatissima e senza il minimo sviluppo economico, in mano al movimento fondamentalistico e terrorista di Hamas; l’altra sotto l’Autorità autonoma palestinese, indebolita e resa impotente dall’espandersi delle colonie ebraiche e dalle azioni antiterroristiche dell’esercito israeliano. In questo modo ha potuto evitare pressioni a favore di trattative per una soluzione politica che inevitabilmente avrebbe richiesto la formazione di uno stato palestinese, il blocco delle colonie ebraiche e la rinuncia al sogno della Grande Israele, tra il Giordano e il Mediterraneo. Così ha potuto sostenere che non c’è partner palestinese con cui trattare, e che i terroristi di Hamas avrebbero avuto la maggioranza, rifiutando di riconoscere lo Stato degli ebrei.
Non è il momento di discutere di come siano crollati tutti gli apparati politici, militari, diplomatici, civili, compresi i servizi segreti in Israele, dopo anni di degradazione messianica, nazionalista e razzista, sotto Netanyahu, portata all’estremo negli ultimi nove mesi di riforme suprematiste e colonialiste. Le uniche mie preoccupazioni ora sono i restanti duecento ostaggi di varie nazionalità e fedi e come riuscire a espellere i quadri di Hamas da Gaza, senza mettere in pericolo gli ostaggi e centinaia o migliaia di soldati e civili israeliani e palestinesi; per non parlare del pericolo ancora peggiore proveniente dal Libano. I generali hanno spinto per un’azione aerea e terrestre massiccia, credendo così di recuperare l’onore perduto per essere stati colti in fallo e rinnovare la minaccia di deterrenza crollata il 7 ottobre, assieme al “recinto” e a tutta la tecnologia più avanzata, calpestati da centinaia di terroristi su camionette e motociclette. Netanyahu ha esitato, perché temeva di impantanarsi nel fango umanitario e militare di Gaza, dove non c’è posto per Rambo o imprese tipo Entebbe. Ma intanto tutti fomentano la vendetta, sotto il nome di vittoria, senza spiegare in cosa questa possa consistere, in tale situazione, e a che prezzo, e che cosa possa consolare le famiglie colpite. Bialik, poeta nazionale ebraico, già scrisse dopo un pogrom all’inizio del Novecento: “Vendetta col sangue d’un bimbo, neppure il diavolo creò”.

“Divide et impera” è stata da sempre la politica israeliana, eccetto il breve periodo dopo Oslo fino all’assassinio di Rabin nel 1995. Anche Hamas è sorto a Gaza sotto l’egida israeliana per indebolire Fatah, e quando è diventato troppo forte è servito come motivo per non continuare le trattative con l’Olp e l’Autorità autonoma palestinese, dato che Hamas non riconosce la legittimità d’Israele. Così le colonie, le espropriazioni e le incursioni in Cisgiordania sono continuate e aumentate (oggi ci sono più di seicentomila israeliani, in violazione della legge internazionale). Abu Mazen, che si oppone formalmente al terrore, non può fermare le azioni di Israele, perdendo così sempre più la faccia di fronte al popolo. Israele, dal 2007, con la scusa del terrore di Hamas, ha permesso solo la mera sopravvivenza di più di due milioni di persone a Gaza, per la maggioranza rifugiati dal 1948, chiusi nella più grande prigione a cielo aperto al mondo (360 chilometri quadrati). Nessuno stato o istituzione è disposto a occuparsi o governare una tale pentola a pressione di povertà, odio, droghe, fondamentalismo e fanatismo, in assenza di qualsiasi infrastruttura economica. Solo la Turchia e il Qatar accolgono alcuni dei capi di Hamas. Il Qatar per anni ha mandato, con l’assenso del Netanyahu, valigie di milioni di dollari in contanti da distribuire; Hamas prelevava tasse da tutti i salari e dalle donazioni e le merci che entravano, per finanziare i propri quadri dirigenti e militari, l’addestramento, l’armamento, i missili e le gallerie blindate sotterranee, che servono solo a loro da rifugio, da quartier generale e per attacchi a sorpresa contro eventuali forze armate israeliane.
Netanyahu sapeva che la realtà urbana, sociale e politica della Striscia rende impossibile prenderne un reale controllo entro breve tempo per eliminare tutte le migliaia di terroristi di Hamas (e immaginiamoci oggi con il problema degli ostaggi). Perciò ha contenuto al minimo le periodiche azioni di rappresaglia agli attacchi saltuari dei missili di Hamas, mantenendolo così al potere. Adesso ha ottenuto anche la migliore prova che i palestinesi, tutti, sono antisemiti e non vogliono nulla meno della distruzione di Israele e del ritorno di tutti i rifugiati arabi del 1948 (a suo tempo 650.000) e del 1967 (circa 100.000) al posto degli ebrei arrivati dopo l’Olocausto (600.000), dai paesi arabi (650.000) e dai paesi comunisti (più di un milione e mezzo), e quelli nati in Israele da allora.
Certo ora nessuno può pensare a soluzioni: sembrano tutte irreali, soprattutto data l’impotenza e la corruzione dell’Autorità autonoma palestinese, disprezzata dal popolo e schernita da Israele, dai coloni e dalle bande teppiste ebraiche armate. Se questa è la realtà della sovrappopolata Striscia di Gaza, è chiaro che nessuna azione militare (neppure tre divisioni corazzate, aviazione e marina!) potrebbe liberare gli ostaggi spersi tra i vari gruppi, stanare i dirigenti di Hamas e costringerli a espatriare e infine colpire le migliaia di pogromisti anonimi senza provocare un eccidio di civili, prima di essere fermata dalla inevitabile e giustissima richiesta universale di far entrare aiuti umanitari e di un cessate il fuoco.
Ma cosa si sarebbe potuto fare a breve termine, prima che fosse troppo tardi? Sarebbe stato possibile un altro piano d’azione, prima dell’inizio dell’intervento terrestre, che non solo mette in pericolo la vita degli ostaggi e ha già proocato migliaia di morti palestinesi a Gaza, duecento in Cisgiordania e settanta soldati israeliani, ma ha anche smembrato la coalizione internazionale (inclusi paesi islamici) che avrebbe potuto far pressione su Hamas, come quella che ha vinto l’Isis.

Nel 1982 da Beirut sono stati espulsi ottomila terroristi palestinesi, assieme allo stesso Arafat. Come stanare dalle gallerie blindate scavate sotto gli ospedali e le scuole dell’Onu, chiamate “il metrò di Gaza”, i quadri dirigenti di Hamas, che non lasciano fuggire la popolazione civile, ma anzi la usano come scudo, e salvare gli ostaggi dispersi e nascosti? Solo una fortissima pressione coordinata da parte di tutti i soggetti in campo poteva riuscire: con minacce e azioni d’assedio militari israeliane; pressione congiunta diplomatica e segreta di tutte le nazioni con ostaggi, e anche altre coinvolte, specialmente islamiche; annuncio di un enorme progetto finanziato e sotto il controllo internazionale, per dare lavoro a decine di migliaia di lavoratori locali, da iniziare immediatamente dopo l’uscita degli ostaggi e dei quadri dirigenti di Hamas dalla Striscia; infine un ultimatum in base al quale, entro una settimana, tutti gli ostaggi e cento dirigenti di Hamas (sulla base di una lista di nomi noti), si dovrebbero presentare alla frontiera con l’Egitto sotto la protezione della Croce Rossa; in cambio degli ostaggi, Israele avrebbe rilasciato tutti i prigioneri appartenenti ad Hamas, che sarebbero stati subito trasferiti assieme ai loro capi nel Qatar che li ha sovvenzionati per anni, o nella Turchia che li appoggia. Ma purtroppo adesso tutto è in discussione.
Non c’è dubbio che sul piano morale si devono condannare senza esitazione sia lo spaventoso pogrom di Hamas del 7 ottobre, sia l’assurda violenta azione militare israeliana ancora in atto, che non riesce nemmeno a fermare il lancio di missili su Israele.
Ma anche sul piano pragmatico le due facce di questa guerra sono controproducenti sia per la causa palestinese sia per Israele. Infatti il pogrom ha riacceso la paura atavica ebraica che il sionismo aveva voluto sradicare, visto il crollo della sicurezza persino in casa nostra -malgrado l’esercito invincibile- e il risorgere del peggiore antisemitismo in tutto il mondo.
Hamas è riuscito ad allontanare ulteriormente Israele dall’accettare qualsiasi possible soluzione: a due stati, a confederazione o altre. E la distruzione e l’eccidio della popolazione palestinese a Gaza ha quasi annullato il supporto internazionale diretto (o tacito, dato che le nazioni musulmane moderate temono il fondamentalismo, ma non osano condannarlo) a Israele per allontanare il terrorismo di Hamas dalle sue frontiere.

Ora tutti cercano disperatamente una via d’uscita dalla situazione impossibile creata dal pogrom del 7 ottobre e dall’azione militare israeliana distruttiva e, oso dire, impotente (con ancora duecento ostaggi nascosti e con i capi di Hamas ancora nascosti ma con le mani al timone, e una pioggia di missili), e incominciano a pensare al giorno dopo il cessate il fuoco. Quello che posso dire è che senza creare un futuro diverso per la Striscia (e per il popolo palestinese tutto), non ci sarà né a breve né a lungo termine sicurezza nel Medio Oriente. Un progetto di infrastrutture è fondamentale per far capire, per lo meno a una parte della popolazione, che cosa di buono succederebbe se Hamas sparisse da Gaza: un esempio di tale progetto potrebbe essere un’isola artificiale in cui creare un porto marittimo, un aeroporto, una centrale d’energia verde, combinata con desalinizzazione d’acqua, ecc.

In inglese si dice: “Too good to be true”, ma siamo nella Terra dei miracoli, e la vita degli ostaggi e di tanti innocenti vale la volontà di provare e di cominciare a pensare diversamente. Già un altro barbuto, Teodor Herzl, disse 120 anni fa: “Se lo vorrete, non sarà una favola”. E per me stesso, termino con la citazione di un rabbino che, sopravvissuto all’Olocausto in cui erano periti tutti i suoi, disse: “Sarebbe potuto andare peggio”. Dovette spiegare e allora aggiunse: “Saremmo potuti diventare noi gli assassini”.
26 novembre 2023