Adriano Sofri
Cara Lea, vorrei proporti una questione: le divergenze fra te e me in un frangente cruciale come la guerra (più urgente ancora della pandemia, di fronte alla quale eravamo molto più d’accordo) sono anche il segno di un irriducibile resto della differenza fra te donna e me uomo? Che abbiamo pensieri e sentimenti più o meno discordanti è del tutto ragionevole e non di rado un piacere. Il mio dubbio è un altro: tu e io abbiamo avuto un lunghissimo tempo in comune, e l’abbiamo trascorso a volte da vicino, altre dandoci un’occhiata da più lontano. Potremmo aspettarci di arrivare, quando fischia il vento, a una conclusione comune -un compromesso almeno, visto che devono arrivarci governi popoli e persone che si stanno sparando addosso. Se non succede, forse è perché, alla fine, proprio come all’inizio, tu sei donna e io uomo. Sarebbe un fallimento. Sono diventati chiari i modi più diffusi di misurarsi con questa guerra. Uno è quello di chi dice: “Sono contro la guerra”. È decisivo e futile: immagina che l’interlocutore, l’interlocutrice, sia “a favore della guerra”. Ma bisogna immaginare che anche il giovane o il padre di famiglia ucraino che oggi impugna la sua arma odi la guerra sopra ogni cosa. (Che poi “la guerra” trasformi a sua immagine chi la vive è problema grande, e i richiami di questi giorni a Weil o a Fenoglio sono raccomandati).
Un altro modo, che è diventato il cavallo di battaglia dell’opposizione “argomentata” è il rimando alle ragioni remote della guerra, che hanno preceduto e preparato (e, per alcuni, giustificato) la decisione di Putin: l’espansionismo maligno o ottuso della Nato, la mortificazione della fierezza russa, la convinzione che la ribellione ucraina del 2014 sia stata un colpo di stato orchestrato da lontano... (Almeno di questo dovremmo diffidare: che una lunga, temeraria, sanguinante ribellione di giovani e di popolo sia il frutto di una cospirazione aliena. Chi l’abbia conosciuta, quella ribellione, è oggi molto meno stupefatto dalla resistenza strenua della gente ucraina). Argomenti degnissimi di attenzione: una loro gran parte era sfuggita a un pubblico, cui variamente apparteniamo, disabituato a seguire le febbri del mondo. Tuttavia questi argomenti sono almeno reciproci. Dalla parte di Putin stava un record di ferocia sbrigativa -dalla Cecenia alla Siria, alla liquidazione degli oppositori- e la rivendicazione di un programma, la rivincita dell’impero umiliato, che aveva per tempo annunziato di non tollerare l’esistenza dell’Ucraina. Come che sia, il rinvio alle “ragioni remote” non potrà mai superare la soglia irreparabile fra il confronto politico e il passaggio alle armi in quella che noi (Putin no) chiamiamo guerra. In questa sommaria catalogazione delle posizioni -che poi si invadono mutuamente- ne indicherei un’altra, che forse è tua (tu sai dirla come merita) e che sento anche largamente mia, ciò che rende più stimolante interrogarsi sulle conseguenze differenti.
È la posizione che vede nella guerra -sempre e ancora- un culmine della formazione maschile, virile, termini che tendono a coincidere, e, rispettivamente, un culmine dell’estraneità femminile, e femminista. Non è l’antico verso della guerra invisa alle madri, che consacrava una divisione del lavoro, e che l’Ucraina di oggi sembra riconsacrare -la condizione di guerra infatti esalta la disuguaglianza di genere e ricaccia indietro la libertà. È una posta di questa guerra, come di tutte le altre spaventose guerre contemporanee che non a caso sono soprattutto guerre civili, cioè incivili, e investono il corpo delle donne, in carne e ossa e nel fantasma. Giovedì sera ho sentito in televisione il giornalista, e militante, ucraino Vladislav Maistrouk dire, quasi per un’idea improvvisa, che l’ossessione di Putin per l’Ucraina somiglia a quelle di certi uomini per la ex moglie che hanno amato, al punto di ucciderla. Mi è sembrato un pensiero folgorante: l’Ucraina è mia perché lo è stata, e se non vuole essere più mia non sarà di nessun altro. Un corto circuito fra guerra e femminicidio: mai casus belli è stato più nitido. I richiami sessuali sono del resto disseminati quasi ingenuamente lungo la frontiera. L’adorno Kirill prende così sul serio il proprio patriarcato da proclamare la crociata contro la dissoluzione sessuale (la sua franchezza dovrebbe suonare come un allarme ai colleghi di altre confessioni). C’è, soprattutto, la divisione dei ruoli fra donne e uomini nell’Ucraina occupata. Leggo che le donne impegnate nella resistenza “militare” sarebbero una su dieci: non poche. Fra le altre, quelle destinate all’esilio prendendosi cura di bambini e vecchi sono un numero terribile: finora, se non fraintendo, le loro voci non si sono levate a scongiurare la resistenza del loro paese e del suo governo. In questi 15 giorni tremendi abbiamo visto con stupore la risolutezza e l’efficacia della resistenza militare ucraina, e con ammirazione i volti e le parole di tante donne ucraine. Ci siamo chiesti dov’ erano -dov’ eravamo: in molte nostre case, anche. Io detesto il nazionalismo, che ebbe una sua stagione fiorente ma contò moltissimo nel fissare l’immagine stereotipa della donna. Di questa Ucraina mi turba un nazionalismo deteriore, e mi colpisce il desiderio di indipendenza nutrito da tutt’ altro che da una mitologia etnica. Che non vogliano tornare sotto la Russia persone nate da genitori russi e che hanno parlato prima il russo -nella pagella di Zelensky il voto meno brillante era quello in lingua ucraina. Non si deve campare di illusioni: ma c’è un’Ucraina di cui si può sperare un patriottismo costituzionale -ed europeo: l’Europa esiste soprattutto oltre il suo confine. L’altra notte ti ho sentita a Fahrenheit, con Loredana Lipperini. Nella stessa puntata Daniela Brogi parlava del suo libro sopra “Lo spazio delle donne”, in quella improvvisa tragica attualità, di tutte quelle donne spostate - sfollate, profughe -che lasciano “il loro posto”, “il focolare”, che vi avessero o no uno spazio tutto per loro, agli uomini, decisi o costretti a restare, aspettando di battersi “casa per casa”. Hai visto che perfino i russi invasori rifiutano gli uomini in alcuni loro cosiddetti corridoi umanitari. E del resto il machismo più efferato è capace di distinzioni a suo modo cavalleresche: le donne si stuprano, gli uomini si ammazzano. A Srebrenica si separarono i maschi, dai ragazzi in su, dalle donne e i bambini, prima di passare alla macelleria. Alla radio avete parlato dell’appello di tante femministe russe, bel documento di intelligenza e di coraggio. Dice che “La guerra porta con sé non solo la violenza delle bombe e dei proiettili, ma anche la violenza sessuale... La guerra in corso, come mostrano i discorsi di Putin, è anche combattuta all’insegna dei ‘valori tradizionali’... Questi ‘valori tradizionali’ includono la disuguaglianza di genere, lo sfruttamento delle donne e la repressione statale contro coloro il cui stile di vita, autoidentificazione e azioni non sono conformi alle ristrette norme del patriarcato”. Dice anche che “la Russia ha dichiarato guerra al suo vicino. Non ha concesso all’Ucraina il diritto all’autodeterminazione né alcuna speranza di una vita pacifica. Dichiariamo che la guerra è stata condotta negli ultimi otto anni su iniziativa del governo russo. La guerra nel Donbas è una conseguenza dell’annessione illegale della Crimea... e il riconoscimento delle repubbliche dopo otto anni è stato solo una scusa per l’invasione dell’Ucraina”. Chiama a mobilitarsi “contro la guerra in Ucraina e la dittatura di Putin”. “Abbiamo bisogno che il mondo intero sostenga l’Ucraina e si rifiuti di aiutare in alcun modo il regime di Putin”. Ho letto, grazie alla tua citazione, le pagine di Virginia Woolf dell’agosto 1940 (tradotte da Nadia Fusini) sui “Pensieri di pace durante un’incursione aerea”. Le tue parole erano rimaste sospese in un accostamento fra i piloti tedeschi e inglesi. Dice: “Su in cielo dei giovani uomini inglesi e dei giovani uomini tedeschi si combattono. Sono uomini i difensori, sono uomini gli attaccanti. Alla donna inglese non vengono consegnate le armi, né per combattere il nemico, né per difendersi. Lei deve giacere al buio disarmata stanotte. Eppure se crede che il combattimento in cielo è una battaglia tra gli inglesi per proteggere la libertà, e i tedeschi per distruggere la libertà, anche lei deve lottare, per quanto può, dalla parte degli inglesi. Ma come può lottare per la libertà senza armi da fuoco? ... Possiamo ‘fabbricare’ idee, che aiuteranno il giovane uomo inglese che combatte su in cielo a sconfiggere il nemico”. Dice anche: “Dobbiamo creare attività più onorevoli per chi cerca di dominare in se stesso l’istinto al combattimento, l’inconscio hitlerismo. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle armi”. (L’inconscio hitlerismo mi è sembrato un risarcimento anticipato alla dolorosa Sylvia Plath, “Ogni donna adora un fascista”; e quanti suicidi). In quello stesso 1940 di Virginia Woolf, Gandhi scriveva una famosa, tremenda “Lettera agli inglesi”: “Faccio appello perché cessiate le ostilità / contro la Germania nazista, / non perché non siete più in grado di sostenere la guerra, ma perché la guerra è un male in assoluto... Invitate Hitler e Mussolini a prendere ciò che vogliono della vostra bella isola... Se vorranno occupare le vostre case, voi le abbandonerete. Se non vi lasceranno uscire, voi insieme alle vostre donne e ai vostri figli vi lascerete uccidere piuttosto che sottomettervi”. Anche Gandhi infatti, pur sensibile alla “bellezza del compromesso”, cedette all’assolutismo della nonviolenza -non si chiamava ancora senza se e senza ma, che mondo di incubo senza se e senza ma. Di fronte a un totalitarismo che dispieghi i suoi programmi (che “Putin non è Hitler” è certo, e non ha un disegno di genocidio razzista) la resistenza armata è necessaria. Ma la novità vera che l’aggressione all’Ucraina ha introdotto è equivalente all’aggressione storica dei totalitarismi, ed è il ricorso esplicito alla minaccia della bomba atomica (continuo a chiamarla così, che non perda il suo significato d’archetipo). La bomba atomica c’è da tre quarti di secolo. Dopo è rimasta disseminata, anche fra noi, ma sempre più rimossa, come tante altre cose intrattabili, certe scorie radioattive di cui non sapremo liberarci, certe parole impronunciabili. Ora ci sta fra i piedi. Ti propongo, Lea, di considerare la bomba atomica come il deposito materiale in cui culmina la storia dell’Uomo: il capolavoro del patriarcato che, uscito da lui, gli sta di fronte come un nuovo divieto nel rattoppato giardino dell’eden. C’erano tre minacce incombenti sul genere umano: il clima, la pandemia, l’atomica. Putin poteva maneggiarne una sola, e ci si è buttato. Ora, le donne hanno una forte ragione, seppur non intera, a dissociarsi dalla storia che è arrivata alla bomba e a rivendicarne un’altra direzione. Ma c’è. In Ucraina si sta decidendo come muoversi sotto quell’esplicito ricatto. La distanza fra No Fly Zone e fornitura di armi difensive sta lì, in bilico. Dunque, perché tu e io non siamo d’accordo, nemmeno dopo ottant’ anni che abitiamo questa terra? Guarda, se dovessi ricapitolare l’itinerario di un maschio (etero) del mio tempo direi così: che prima veniva la sfida del sesso come una messa alla prova della virilità, non granché per sé (ancor meno per l’altra), una sufficienza presa presso i propri simili; poi un’attenzione all’altra, al suo piacere e a una sua realizzazione, che era però ancora un arrotondamento meno rozzo della prova di sé; poi un desiderio della felicità dell’altra come condizione e compimento (parziale, incolmabile) della propria. Poi la memoria. Forse nella vicenda media di un uomo (etero) della nostra generazione, di una vita così lunga e così piena di cambiamenti vertiginosi, c’è un riassunto, o almeno uno spiraglio metaforico alla vicenda del rapporto fra l’uomo e la terra. Un uomo che abbia imparato ad amare, davvero saprà fare l’amore e non la guerra. Io desidero dare un’arma di difesa -contro un tank, una batteria di artiglieria, un caccia- a chi è aggredito e rischia di soccombere. E, angosciosamente, mi dico che il negoziato che tutte e tutti dicono di auspicare non verrà se non grazie alla resistenza. A farci differenti è un’opinione, o anche e ancora, il tuo esser donna e il mio essere, ed esser stato, uomo?
“Il Foglio”, 12 marzo 2022
Lea Melandri
Caro Adriano, non posso che partire dalla domanda che mi poni a inizio e fine della tua lettera, di cui ti ringrazio, e dal richiamo affettuoso al “lunghissimo tempo in comune” che abbiamo avuto. A partire dal nostro primo incontro come matricole alla Scuola Normale di Pisa, è vero che non ci siamo mai persi del tutto di vista, da vicino o leggendoci da lontano. Ti meravigli che questo lungo tratto di vita e di storia, che a volte si è anche intrecciato - penso a Lotta continua, negli anni Settanta -, non ci porti oggi a trovare almeno un “compromesso” tra le nostre diverse opinioni rispetto a un “frangente cruciale” come la guerra. In Ucraina, ma io aggiungo: rispetto a tutte le guerre. Ti chiedi se, al di là di tutto quello che condividiamo -e che occupa gran parte del tuo scritto-, a dividere le nostre scelte non sia quel “resto”, che è “la differenza fra me donna e te uomo”. Mi viene immediato e facile risponderti che ci sono uomini che la pensano come me, e con argomentazioni analoghe, e donne che conosco, a cui mi lega una lunga amicizia, che condividono la tua idea che sia necessario “dare un’arma di difesa a chi è aggredito”. Non intendo dire che l’appartenenza a un sesso e all’altro sia di per sé insignificante, ma la prima e la più rivoluzionaria intuizione del femminismo è stato riconoscere che le donne hanno purtroppo, forzatamente e loro malgrado, fatta propria la visione maschile del mondo. Che altro potevano fare, una volta confinate nel ruolo di madri e mogli, cancellata la loro sessualità e il loro essere persone e non “un genere”? Anche gli uomini hanno ereditato, di padre in figlio -e con quell’anello di trasmissione che è l’educazione materna- una cultura sessista, un privilegio ma anche la mutilazione di parti essenziali dell’umano, considerate “per natura” femminili. “Per molti uomini -scrive bell hooks- è difficile essere dei patriarchi. Molti di loro sono disturbati dall’odio e dalla paura delle donne, dalla violenza maschile contro le donne, perfino gli uomini che perpetuano tale violenza. Tuttavia hanno paura di rinunciare a dei benefici. Perciò trovano più facile sostenere passivamente il dominio maschile anche quando, nel profondo della loro mente e del loro cuore, sanno che è sbagliato […]. Se conoscessero meglio il femminismo, smetterebbero di averne paura, perché nel movimento femminista troverebbero la speranza della loro stessa liberazione.” Quello che più mi ha colpito nella tua lettera è la ricchezza dei ragionamenti e delle citazioni che dicono quanto questa conoscenza abbia avuto un peso nella tua formazione politica, oltre che personale. La guerra, tu dici, e io posso confermare, è “un culmine della formazione maschile”, o virile, così come della “estraneità femminile, e femminista”: esalta la disuguaglianza di genere, ricaccia indietro libertà conquistate, investe il corpo delle donne, sia che vengono uccise o stuprate, le riporta dentro quell’ordine e quei valori, considerati “naturali”, di cui hanno già conosciuto il peso. E aggiungi : “La bomba atomica -comparsa nelle minacce di Putin- è il deposito materiale in cui culmina la storia dell’Uomo, il capolavoro del patriarcato […]. Ora, le donne hanno una forte ragione, seppur non intera, a dissociarsi dalla storia che è arrivata alla bomba e a rivendicarne un’altra direzione”. Su un altro aspetto siamo d’accordo e mi fa piacere che tu l’abbia nominato, ed è il rapporto tra sessualità e politica, sessualità e guerra. Illuminante è il collegamento tra l’aggressione di Putin all’Ucraina ribelle, un paese che considera ancora suo e che perciò non può essere di nessun altro, e il femminicidio, la vendetta di certi uomini sulla ex moglie che li ha lasciati. Dove sta allora lo “scarto” o l’ “irriducibile resto” di ragione che sta al fondo delle nostre divergenze? Ho creduto di poterlo rintracciare, sia pure indirettamente, nell’accostamento che fai tra il breve saggio di Virginia Woolf del 1940, dove si parla dell’ “hitlerismo incoscio” o del desiderio di dominare che accomuna soldati inglesi e tedeschi, i difensori e gli aggressori, in quanto uomini -un desiderio da cui non sono esenti neppure le donne, “schiave che cercano di rendere schiavi gli altri”- e la lettera di Gandhi agli inglesi ispirata a un pacifismo assoluto, e quindi, se ne deduce, al rifiuto della seconda guerra mondiale che ha liberato l’Europa dal nazismo. “Putin non è Hitler”, è la tua precisazione, ma “la resistenza armata è necessaria”. E fai notare che anche le donne destinate all’esilio, a prendersi cura di bambini e vecchi, lasciando gli uomini a combattere, alcuni forse contro la loro volontà, non hanno levato la voce per “scongiurare la resistenza del loro paese e del loro governo”. Come se fosse facile per chi si trova a essere tra le principali vittime della guerra non odiare chi le ha ricacciate in una servitù ancora peggiore di quella già conosciuta. Ma dove è più evidente il tuo bisogno di strappare anche al femminismo un qualche “compromesso”, è nella citazione del Manifesto delle femministe russe, riportato solo per la parte in cui si chiede di “mobilitarsi contro la guerra in Ucraina e la dittatura di Putin”. Mi permetto di aggiungere il seguito di quella citazione: “Il movimento femminista in Russia lotta per i soggetti più deboli e per lo sviluppo di una società giusta con pari opportunità e prospettive, in cui non può esserci spazio per la violenza e i conflitti militari. Guerra significa violenza, povertà, sfollamenti forzati, vite spezzate, insicurezza, mancanza di futuro. Tutto ciò è inconciliabile con i valori e gli obiettivi del movimento femminista. La guerra intensifica la disuguaglianza di genere e mette un freno per molti anni alle conquiste per i diritti umani. La guerra porta con sé non solo la violenza delle bombe e dei proiettili, ma anche la violenza sessuale (…) Siamo l’opposizione alla guerra, al patriarcato, all’autoritarismo (…) Ed è anche fondamentale far vedere che le femministe sono contrarie a questa guerra e a qualsiasi tipo di guerra”. Tu dici che la distanza “fra No Fly Zone”, che vorrebbe il governo ucraino per sconfiggere Putin, e “la fornitura di armi difensive” agli aggrediti, sta “in bilico” di fronte alla minaccia della bomba atomica, e cioè di una guerra di inimmaginabile devastazione, da aggiungere ad altre minacce, come il clima e la pandemia. Se non bastasse il dubbio che l’invio di armi dai paesi europei sia già una sorta di co-belligeranza, una spinta all’intensificazione della guerra, dovrebbe far riflettere il fatto inequivocabile che i trattati di pace hanno sempre creato finora i presupposti per nuove guerre, e che solo dicendo con chiarezza che la guerra non è il modo per risolvere i conflitti, si può sperare che la storia volga, come ci auguriamo entrambi, verso “un’altra direzione”.
Concludo dicendo che il pacifismo, nella sua radicalità, non può essere applicato retroattivamente alle guerre del passato, ma va riportato all’oggi, alle consapevolezze che grazie a movimenti libertari come il femminismo sono approdate alla coscienza dei singol* e dei popoli. La storia può cambiare? Mi verrebbe da dire che la storia è già cambiata dal momento che ha portato allo scoperto il dominio maschile, gli orrori della “virilità guerriera”, i legami tra sessismo, razzismo, classismo, nazionalismo, ecc. “Pace” oggi per me, come per molte altre femministe, vuol dire porsi “su un altro piano”, andare alle radici di quel primo atto di guerra che è stata la sottomissione delle donne, considerate “natura inferiore”, “animalità”, il loro asservimento al sesso vincitore. È da questa guerra mai dichiarata, e perciò più subdola, invisibile perché coperta dalla sua “naturalità”, che nasce il perverso connubio tra distruzione e salvezza, tra guerra e umanitarismo, guerra e religione. Se, come ho scritto più volte, “gli orrori hanno un genere”, è da questo fondamentale retroterra che dobbiamo partire per dar modo al pensiero e all’immaginazione di scoprire nuovi modi per uscire dalla barbarie che abbiamo ereditato.
Per esprimerti la mia gratitudine, finisco dicendo che questa nostra conversazione è già nell’ordine di un “si vis pacem, para pacem”, da intendersi in senso generale, ma anche nei rapporti tra le persone.
Con affetto,
“Il riformista”, 16 marzo 2022
Adriano Sofri
Vorrei indicare poche sommarie conclusioni della discussione fra me e la mia amica Lea Melandri. La guerra è una caccia all’uomo -alla donna. Ma alla questione che ponevo, se una divergenza finale sia resa inevitabile dal fatto che lei è una donna femminista e io un uomo, posso per il momento rispondere di no, e non è poco. Anche da un’altra confusione, la più moralmente e sentimentalmente impegnativa, possiamo sgombrare il campo: che rifiutare o accettare di armare chi si difende da un’aggressione implichi una differenza nell’avversione alla guerra. Nessuna persona decente può partecipare di una discussione in cui la si accusi di essere in favore della guerra, guerrafondaio, bellicista e così avanti: di non desiderare che la guerra sia espiantata dalla faccia della terra. Lea non dice solo di essere contro la guerra: a differenza di Gino Strada, per esempio (“non sono pacifista, sono contro la guerra”: con lui ebbi un dissenso incompiuto) Lea si dichiara “radicalmente pacifista”. Riprenderei una differenza che era, mi pare, di Hannah Arendt, fra radicale e assoluto -lei la riferiva al male. Non per negare una radicalità alla convinzione di Lea, ma per segnalarne un’assolutezza, che le impedisce, o le risparmia, di misurarsi ogni volta di nuovo con la situazione concreta, con la sciagura che di volta in volta chiamiamo “guerra”. (E propongo intanto di mettere via la parola “interventista”, tanto più nell’opposizione “pacifista-interventista”. Sarebbe lecito usarla se significasse a sua volta un’assolutezza, se di fronte a ogni conflitto armato si rispondesse invocando un intervento militare). L’assolutezza, il senza se e senza ma, fissano un apriori: so già che cosa farò ogni volta che un conflitto rovini nel ricorso alle armi e agli eserciti, regolari o no. Lo so a Sarajevo, o a Srebrenica, dove i massacri degli inermi e delle loro città possono durare anni, quattro anni, denunciati solennemente e inanemente dalle Nazioni Unite, fino a che un intervento militare di 14 giorni (della Nato, allora, 1995) metta fine alla guerra. Lo so in Ruanda, dove si compie in cento giorni un genocidio milionario a colpi di machete. E così via.
L’assolutismo del rifiuto della forza, fino alle armi proporzionate, implica l’abbandono di un principio fondamentale come quello della legittima difesa. Che vale tanto quando la minaccia e l’aggressione prendono di mira una persona quanto nei confronti di comunità e Stati. Si può, certo, rinunciare alla legittima difesa: Lev Tolstoj esortava a farlo predicando la non resistenza al male. Si può, è molto difficile per tutte e tutti, difficilissimo anche per Tolstoj. È ancora più difficile quando si debba rinunciare a difendere non se stessi, ma il proprio prossimo, più debole, più inerme, più prescelto dalla sopraffazione.
Nel 2001 scrissi una “Lettera alle donne invisibili”; mi ha fatto impressione rileggerla. Nella inesauribile controversia su questi temi di cui partecipo da tanto, persuaso che non abbia un traguardo se non in provvisori compromessi, mi dico che una buona parte della differenza sta nell’essersi trovati nel luogo e nel tempo in cui occorreva mettersi in un posto. Nei luoghi e nei giorni in cui non si tratta più di prevenire la guerra, in cui la guerra è scoppiata e infuria e si tratta di farla finire. Leggo: “Sono contro tutte le guerre, sempre e comunque, e chiedo: anche nel Sinjar, quando l’avanzata travolgente dell’armata dell’Isis sta afferrando bambini e donne yazide, per farne piccoli soldati invasati e schiave sessuali e domestiche, separandole dagli uomini, per umiliarli e fucilarli?” Quella “guerra” è durata più di due anni. Ragazze e donne yazide, fra loro qualche scampata al rapimento e ai tormenti, e non di rado anche al rischio del ripudio delle famiglie, hanno preso le armi, nella loro terra, nel Kurdistan iracheno, o insieme alle sorelle del Rojava. So che cosa avrei fatto -l’ho inadeguatamente fatto- se avessero chiesto di dar loro le armi. Succedeva lontano, ma non tanto. Vi ricordate che cosa ci diceva lo Stato Islamico: “Conquisteremo Roma e le vostre donne”. Dicevano a noi, secondo loro. Da uomo a uomo.
Che si decida, ciascuna e ciascuno, di dare o no le armi agli ucraini che le chiedono (io lo farei), è praticamente irrilevante. Non abbiamo armi, è solo un modo di fare i conti con un problema grave, e di accapigliarci. Non è nemmeno, in una situazione così tragicamente angosciosa, una vera discriminante. Non si rompono amicizie per questo, né cooperazioni: sono tante le cose giuste da fare insieme. In Ucraina non si può invocare una “polizia internazionale”, nemmeno la più parziale e supplente. E la lezione, vecchia ma rimossa e solo ora squadernata, è che la nozione stessa di polizia internazionale si dilegua quando un giocatore mette sul piatto la sua testata nucleare. Dunque si torna al punto: un’aggressione, una strenua (sbalorditiva) volontà di difendersi e resistere, un desiderio che le armi tacciano. Ognuna, ognuno, avrà riconosciuto i suoi, e non in una sola parte.
“Il Foglio”, 19 marzo 2022
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