È uscito per le edizioni Una città il libro di memorie di Roselyne Chenu, intervistata nel n. 275. Pubblichiamo qui la prefazione di Alessandro Giacone.

ll libro che vi accingete a leggere ha una lunga storia. Devo il privilegio di scrivere questa prefazione -molte persone erano più qualificate di me- al fatto di essere stato testimone della lunga gestazione di questo volume. Ho conosciuto Roselyne Chenu più di venti anni fa, quando mi occupavo di un progetto sull’alto funzionario francese Paul Delouvrier, a cui aveva dedicato una biografia. Per alcuni mesi, con grande generosità, mi aiutò a correggere quello che sarebbe diventato il mio primo libro. Fui subito colpito dallo “spietato rigore” con cui curava ogni frase e verificava ogni dettaglio, nonostante non fosse una storica di professione (e anzi, forse proprio grazie alla sua formazione scientifica). Da quel momento, non ho praticamente più cessato di andarla a trovare nel suo bell’appartamento di rue Poinsot, con vista sul grattacielo di Montparnasse.
Nel corso delle nostre conversazioni, abbiamo parlato spesso del Congresso per la libertà della cultura -l’associazione creata nel 1950 da Michael Josselson con un gruppo di eminenti intellettuali- in cui Roselyne era entrata nel 1964, come assistente di Direzione al segretariato internazionale di Parigi.
Oggi, in un mutato clima politico e ideologico, è difficile capire le motivazioni che presiedettero alla creazione del Congresso. Negli ultimi anni, dapprima l’opera del sociologo francese Pierre Grémion, Intelligence de l’anticommunisme, quindi il volume della giornalista inglese Frances Stonor Saunders, La guerra fredda culturale, lo hanno descritto come “il migliore strumento dell’anticomunismo americano”, ribadendo un tema emerso nel 1967 con la scoperta dei finanziamenti della Cia (sui quali torneremo).
Quando Roselyne lesse il libro di Grémion, che pure l’aveva intervistata durante le sue ricerche, ebbe un tuffo al cuore. Al di là di alcuni errori fattuali, qualcosa non quadrava proprio nell’interpretazione generale delle attività del Congresso. Come spiegare che grandi intellettuali così attaccati alla libertà di pensiero -Raymond Aron, Arthur Koestler, Arthur Schlesinger, e in Italia Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte- avessero militato in un’organizzazione che, sui siti complottisti che spopolano su Internet, viene presentata come uno strumento occulto della Cia?
Certo, il Congresso per la libertà della cultura era anticomunista -perché antitotalitario- ma dispiegava la stessa attività e la stessa energia anche nei paesi governati da dittature di destra, come la Spagna franchista, il Portogallo di Salazar o i regimi neofascisti dell’America latina, estendendo le sue azioni anche in Africa e in Asia. Insomma, focalizzandosi solo sull’anticomunismo, si rischia di perdere di vista lo scopo essenziale del Congresso, che era quello di aiutare gli intellettuali in tutti i paesi in cui non potevano esprimere liberamente il proprio pensiero. Per questo motivo, il libro si intitola significativamente In lotta contro le dittature (sottinteso: tutte le dittature).
Di questa storia, Roselyne Chenu è stata testimone diretta dal 1964 al 1975, partecipando a numerose (e pericolose) missioni all’estero, nella penisola iberica e nei paesi d’Oltrecortina. Oggi è l’ultima superstite della direzione internazionale del Congresso, la cui memoria interna rischiava quindi di scomparire, o di essere stravolta da ricostruzioni più o meno attendibili. Da qui l’idea di scrivere la storia dell’associazione, con l’aiuto del giovane storico svizzero Nicolas Stenger, che ha preparato un primo canovaccio di domande.
La forma di questo volume non deve tuttavia trarre in inganno: non si tratta di un semplice libro-intervista, basato su ricordi più o meno labili. Roselyne Chenu aveva conservato i diari manoscritti delle proprie missioni, che saranno presto pubblicati. A partire dal 2004, ha percorso mezzo mondo a caccia di documenti (gli archivi del Congresso si trovano a Chicago e a Ginevra), a partire dalla sua corrispondenza con il poeta Pierre Emmanuel (che l’aveva introdotta al segretariato internazionale di Parigi) e allargando via via a tutti gli aspetti della vita del Congresso. Si è quindi recata a Madrid e a Lisbona per esplorare gli archivi dei Comitati clandestini spagnolo e portoghese. In quattordici anni di lavoro, migliaia di fotocopie hanno invaso il suo studio, venendo a costituire una sorta di archivio bis del Congresso, che prima o poi verrà messo a disposizione dei ricercatori.
Ho spesso rimproverato a Roselyne di non aver citato in nota quell’enorme massa di documenti, che le sono serviti a verificare ogni evento e ogni convegno di cui parla nel volume (e qui si torna allo “spietato rigore” di cui parlavo all’inizio). Ma, come spesso mi ha ripetuto, non le interessava scrivere un libro di stampo accademico, bensì rivolgersi nel modo più chiaro possibile a un pubblico molto più vasto. Si tratta di una vera e propria ricerca del tempo perduto, che oggi si conclude, come l’opera di Proust, con il tempo ritrovato. Il risultato di questi anni di lavoro, pubblicato in Francia nel 2018, è ora disponibile anche in italiano, grazie all’interesse di Cesare Panizza, dell’Associazione “Amici di Nicola Chiaromonte” e della rivista “Una città”.
Il lettore vi scoprirà la storia interna di un’associazione che ha conosciuto alti e bassi, successi e fallimenti, fino allo scandalo dei fondi Cia (1967), al quale Roselyne dedica pagine fondamentali, che permetteranno di avere una visione più equilibrata della vicenda. Il Congresso non beneficiò mai di contributi diretti della Cia, che arrivavano attraverso cinque fondazioni private (Catherwood, Farfield, Holmes, Hoblitzelle e Miami District Fund). Solo due responsabili del Congresso, prima Michael Josselson poi John Hunt (intervistati in passato dall’autrice), ne erano al corrente, e non subirono mai pressioni per orientarne in un determinato senso le attività intellettuali. Come riassume Roselyne, “non ho mai provato nessuna sensazione di disagio: dal 1964, non mi sono mai trovata in una situazione nella quale mi fossi sentita strumentalizzata. Nei miei compiti e nelle mie iniziative quotidiane, non ho mai percepito o avvertito la minima direttiva americana”. Dopo la crisi del 1967 e una modifica di nome, l’Associazione internazionale per la libertà della cultura, ormai sovvenzionata solo dalla Fondazione Ford, sarà paradossalmente meno autonoma di quanto fosse stata nel periodo precedente: nel 1978, quando cessarono i finanziamenti, il Congresso chiuse i battenti.
Il libro riassume così un quarto di secolo di storia politica e intellettuale, che potrà interessare anche chi non ha vissuto nei decenni della guerra fredda. È la storia di una vita; una storia di donne e di uomini coraggiosi; una storia che oggi potrà essere letta e studiata con uno sguardo nuovo.
E per questo impegno, cara Roselyne, dobbiamo dirti, semplicemente, grazie.
Alessandro Giacone