Tra fine Novecento e inizio Duemila, si è messa a circolare di nuovo l’idea che l’Occidente, dopo aver invaso e influenzato il mondo con il suo comunismo e il suo capitalismo, fosse entrato in crisi mostrando chiari segni di declino. Oggi è in crisi anche quel protagonismo economico, culturale e politico degli Stati Uniti che, dopo il 1945, aveva spodestato il primato europeo.
In realtà è dall’inizio del Novecento che circola un’aria di catastrofe. La cosiddetta Grande guerra del 1914-18 aveva scatenato il potenziale autodistruttivo della modernità europea come mai prima. E fra il 1918 e il 1922 un singolare pensatore tedesco, un po’ profeta e un po’ impostore, Oswald Spengler, aveva pubblicato i due volumi di un’opera di straordinario successo: Il tramonto dell’Occidente. Benedetto Croce lo definì “un ingegnoso ciarlatano” ma più tardi, in un saggio del 1938, Theodor W. Adorno ammise che “con una chiarezza quasi ineguagliata” Spengler aveva mostrato come “la natura della civiltà incessantemente torni a sospingere verso il tramonto” e ogni civiltà “in quanto forma e ordine, sia asservita a un cieco dominio”. La razionalità civilizzatrice, cioè, lavorando al suo progetto di dominare tutto, non poteva che scivolare verso l’irrazionalità nel momento in cui il gigantismo dei mezzi oscurava la coscienza dei fini.
Influenzato sia da Goethe che da Nietzsche e dalla loro intuizione della crescita, affermazione e decadenza “organica” di ogni forma in cui viene ordinata l’energia vitale e la volontà di potenza, Spengler vede e descrive le civiltà umane come organismi viventi. La storia ubbidisce cioè a leggi di natura a cui nessun vivente può sottrarsi. Una volta ideata e creata la propria identità, anche gli organismi storici esprimono pienamente e poi cominciano a perdere l’energia necessaria a svilupparsi oltre i limiti raggiunti. La storia procede quindi non per sviluppo lineare, ma per cicli. Qui anche l’influenza di un grande naturalista come Darwin si fa sentire. Nell’opera di Spengler si mescolano varie tematiche culturali emerse tra fine Ottocento e primo Novecento. Il tono, lo stile del Tramonto dell’Occidente ha nello stesso tempo una solennità visionaria e una elementare semplicità:

Una civiltà nasce nel punto in cui una grande anima si desta dallo stato della psichicità primordiale di una umanità eternamente giovane e si distacca, forma dell’informe, realtà limitata e peritura di fronte allo sconfinato e al perenne. Essa fiorisce sul suolo di un paesaggio esattamente delimitabile, al quale resta radicata come una pianta. Una civiltà muore quando la sua anima ha realizzato la somma delle sue possibilità sotto specie di popoli, lingue, forme di fede, arti, Stati, scienze; essa allora si riconfonde con l’elemento animico primordiale. Ma finché essa vive, la sua esistenza nella successione delle grandi epoche, che contrassegnano con tratti decisi la sua progressiva realizzazione, è una lotta intima e appassionata per l’affermazione dell’idea contro le potenze del caos esterno (...). Non è solo l’artista a lottare contro la resistenza della materia e contro ciò che in lui vuole negare l’idea. Ogni civiltà sta in un rapporto profondamente simbolico e quasi mistico con l’esteso, con lo spazio in cui e attraverso cui intende realizzarsi. Una volta che lo scopo è raggiunto e che l’idea è esteriormente realizzata nella pienezza di tutte le sue interne possibilità, la civiltà d’un tratto si irrigidisce, muore, il suo sangue scorre via, le sue forze sono spezzate, essa diviene civilizzazione. Ecco quello che noi sentiamo e intendiamo con le parole egizianismo, bizantinismo, mandarinismo. Così essa, gigantesco albero disseccato di una foresta vergine, ancora per secoli e per millenni può protendere le sue ramificazioni marcite. Lo vediamo in Cina, in India, nel mondo dell’Islam (...).
Questo è il senso di ogni tramonto nella storia, il senso del compimento interno ed esterno, dell’esaurimento che attende ogni civiltà vivente. Di tali tramonti, quello dai tratti più distinti, il “tramonto del mondo antico”, lo abbiamo dinanzi agli occhi, mentre già cominciamo a sentire in noi e intorno a noi i primi sintomi di un fenomeno del tutto simile quanto a decorso e durata, il quale si manifesterà nei primi secoli del prossimo millennio, il “tramonto dell’Occidente”.
(Il tramonto dell’Occidente, pag. 173-74, Longanesi 1957, 2008)

Questo linguaggio scandalizzò e indignò Benedetto Croce, spingendolo a scrivere nella sua recensione del 1920 sulla propria rivista “La Critica”, che il libro di Spengler “non può non impensierire gravemente coloro che hanno a cuore le sorti del lavoro scientifico perché minaccia di trovare facili e generali accoglienze e di produrre follie, debolezze e danni mentali e morali”. La severità di un tale giudizio da parte del più autorevole e influente filosofo italiano ritardò la traduzione del libro, che uscì in Italia, tradotto da Julius Evola, solo nel 1957. Ma proprio i difetti sottolineati da Croce determinarono il successo di Spengler, il quale presentando la prima edizione del suo lavoro scrisse che la sua non era “una filosofia del momento fra le altre, bensì dell’unica e, in un certo modo, naturale filosofia che oggi tutti oscuramente presentono”. Spengler era perciò consapevole di aver scritto un libro che non si raccomandava per la sua logica e fondatezza scientifica, ma per la sua capacità di interpretare e suggestionare “oscuramente” uno stato d’animo sempre più diffuso dopo quattro anni di guerra e soprattutto nella Germania sconfitta.
Spengler filosofo era nello stesso tempo un intuitivo innovatore e uno sfrenato semplificatore, parlava sia ai colti che ai dilettanti. Era capace, dopo tante citazioni di uomini e momenti culminanti della storia, di scrivere frasi come questa: “Ogni civiltà attraversa le stesse fasi dell’individuo umano. Ognuna ha la sua fanciullezza, la sua gioventù, la sua età virile e la sua senilità” (p. 174).
Non esiste successo culturale di massa senza riduzioni, semplificazioni e qualche rozza banalità. Eppure niente ha grande successo senza interpretare e dare voce a sentimenti, paure, istinti che nella cultura degli intellettuali non erano ancora filtrati. La “barbarica” mescolanza di profondità e semplicismo, grandi visioni e gesti perentori, conclusivi, che permettono di pensare a una “vita” che l’intelletto da solo non sa capire. Anche un filosofo molto marxista, molto razionalista e innamorato del realismo politico come Lucio Colletti, in un articolo del 1986 in cui commemorava Spengler nel cinquantenario della morte, dopo aver sottolineato il “tono dogmatico”, gli “assunti rozzamente deterministici” e la “continua evocazione del destino”, che ne caratterizzavano lo stile, riconobbe anche che nel pensiero di un tale deleterio filosofo c’era qualcosa di “moderno” da prendere in considerazione: “una visione più realistica e drammatica di ciò che rende precaria e caduca la civiltà umana. Anzi, l’idea che non c’è la civiltà: la civiltà al singolare, perenne e indistruttibile, che cumula e tesaurizza entro di sé tutto il passato. Bensì che le civiltà nascono e muoiono. Che la storia ne ha conosciute molte, di cui non serba più traccia. Che non tutto, dunque, si salva e molto è irrevocabilmente perduto. Che le civiltà sono costellazioni di eventi irripetibili, la cui sopravvivenza è problematica e non garantita da nulla. E, finalmente, che anche la civiltà occidentale è una di queste (...) Non c’è più la provvidenza vichiana o la razionalità hegelo-marxista della storia, intesa come un filo che la traversi tutta da un capo all’altro” (Pagine di filosofia e politica, Rizzoli 1989, p. 109).
Spengler è comunque, e voleva essere, un filosofo della storia, benché di tipo nuovo, più attento alla morfologia delle singole culture intese come forma di vita organica il cui funzionamento interno non era comunicabile e trasferibile da una cultura all’altra. Ogni civiltà si presenta in Spengler come una grande “monade”, un cosmo autonomo nel quale tutta la realtà viene rispecchiata in modo unico e irripetibile.
Una delle formule spengleriane che hanno finito per circolare di più è la distinzione oppositiva, molto tedesca, fra Kultur e Zivilisation, cioè da un lato la civiltà in quanto cultura alta, creativa, dall’altro la civilizzazione nell’ordine sociale, non l’“anima”, ma la “razionalità strumentale”, politica e tecnica. Sintomi della decadenza dell’Occidente e del declino della sua primitiva energia vitale sono secondo Spengler il pensiero dialettico e analitico, il nichilismo, la democrazia parlamentare, la dittatura del denaro, il socialismo di ogni tendenza. Tutto questo è civilizzazione. Ogni civiltà decade diventando civilizzazione, questo è il suo destino: “le civilizzazioni sono gli stadi più esteriori e più artificiali di cui una specie umana superiore è capace. Esse rappresentano una fine, sono il divenuto che succede al divenire, la morte che succede alla vita, la fissità che segue all’evoluzione; vengono dopo l’ambiente naturale e la fanciullezza dell’anima” (p. 57).
Nell’ultimo capitolo del Tramonto dell’Occidente compaiono il Denaro e la Macchina, i due agenti della civilizzazione come dissoluzione e fine di una civiltà. Quando “denaro e vita sono inseparabili e il denaro è la vita” (secondo le parole di Bernard Shaw che Spengler riprende) allora “la tradizione e la personalità hanno perduto il loro valore immediato e ogni idea deve essere tradotta anzitutto in termini di denaro. In principio si avevano dei beni perché si era potenti. Ora si è potenti perché si ha denaro (...) Democrazia significa identità perfetta fra denaro e potere politico”.
Poi viene la Macchina. Cioè l’ultima realizzazione occidentale della tecnica: “per le dimensioni inaudite, ambienti giganteschi vengono costruiti per macchine titaniche (...) E queste macchine nella loro forma sono sempre più disumanizzate, sempre più ascetiche, mistiche, dogmatiche. Esse avvolgono la terra con una rete infinita di forze sottili, di correnti e di tensioni. Il loro corpo si fa sempre più spirituale, sempre più chiuso (...) Agli occhi del credente la macchina rappresenta la detronizzazione di Dio”.
Anche l’ambivalenza politica determinò, fra il 1920 e il 1940, il successo di Spengler. Destra e sinistra in lotta potevano usare a modo proprio il suo libro.