Cari amici,
a metà ottobre il governo di Hong Kong ha annunciato l’imminente chiusura del Museo di Storia, per un “esteso aggiornamento” delle sale che coprono la storia contemporanea di Hong Kong -dalla Guerra dell’Oppio con cui gli inglesi si sono visti cedere Hong Kong stessa, nel 1840, fino al passaggio di sovranità dalla Gran Bretagna alla Cina nel 1997. La riapertura è prevista per il 2022. Finora però non sono state date molte spiegazioni su quello che succederà o su quali siano i criteri con cui verrà “aggiornato”.
Alla conferenza stampa, un funzionario governativo si è limitato a dire che la nuova esposizione permanente includerà alcuni dei più importanti eventi dal 1997 ad oggi -ad esclusione, già annunciata, delle manifestazioni dello scorso anno.
Dato che l’annuncio è stato dato ad appena quattro giorni dalla chiusura, tutti si sono messi in fila per andare al museo a fotografare il più possibile. C’è infatti poca fiducia sulla versione della storia locale che il governo ha intenzione di mettere in mostra.
Ci sono andata anch’io -il giovedì pomeriggio, pensando che così avrei evitato le code che di sicuro ci sarebbero state nel fine settimana. Un calcolo un po’ ottimista: giovedì il museo era pieno; i dipendenti passavano reggendo un cartello che sollecitava a non dimenticare il distanziamento sociale (all’ingresso, mascherina obbligatoria, misura della temperatura e disinfettante sulle mani per tutti) senza però poter fare molto per imporlo. Sabato e domenica le code sono state incredibili.
A dire il vero io avevo molte critiche anche rispetto all’esposizione che sta per essere smantellata e non ero la sola. Evidentemente il timore di ritrovarsi con una versione ancor più edulcorata e nazionalista, volta a stemperare l’esperienza e l’identità di Hong Kong, è tale da far rimpiangere anche qualcosa di imperfetto.
Comunque, l’intero piano inferiore allo stato attuale è dedicato alla preistoria e alla storia pre-britannica, con il solito diorama con i nostri antenati un po’ scimmieschi con la clava, impegnati ad accendere il fuoco con le pietre. Non che sia insignificante, ma tutto quello spazio dedicato a un piccolo villaggio mi è sempre sembrato un modo per dire che, certo, Hong Kong è stata fondata dall’Impero Coloniale Britannico, ma gli inglesi sono stati solo un episodio in una storia millenaria (a quanto pare le fotografie dei 28 governatori britannici di Hong Kong verranno eliminate).
Una cosa già del tutto assente nel museo, peraltro abbastanza schematico, è il ruolo del cosmopolitismo coloniale, che fa sì che, per esempio, l’Università di Hong Kong e uno dei più importanti ospedali siano stati fondati da Parsi, che l’elettricità sia stata portata in tutto il territorio da un ebreo di Baghdad divenuto milionario qui, e che non solo cinesi e britannici, ma anche filippini, vietnamiti, indonesiani e indiani, insieme a tanti altri, abbiano creato questo luogo così fuori dagli schemi.
Ma questa Hong Kong dai confini culturali imprecisi è proprio quello che la Cina vuole eliminare.
C’è una fotografia della prima manifestazione di massa a Hong Kong, nel 1989. La didascalia dice: “Un milione in strada”, e spiega che quando gli studenti a Pechino manifestarono, Hong Kong li sostenne. Non spiega cosa sia successo alla fine e come Hong Kong abbia reagito da allora, ma probabilmente anche questa fotografia, pur reticente, sarà rimossa.
Mi sono seduta a guardare il filmato sulla guerra dell’oppio: la propaganda cinese è talmente ossessiva che ci si scopre a cercare il pelo nell’uovo in una guerra coloniale, imperialista e di conquista che di difendibile non avrebbe proprio nulla. Certo, i funzionari cinesi avrebbero forse potuto evitarla comportandosi altrimenti, ma questo è davvero un dettaglio davanti al brutale imperialismo britannico. Pure una guerra come questa, dove il torto e la ragione sono abbastanza evidenti, viene presentata in un modo così insopportabilmente nazionalista da portare perfino me a pensare: “sì, vabbé”, salvo poi scrollarmi immediatamente di dosso questa fastidiosa reazione.

Mentre mi avviavo all’uscita dalla sala, ho sentito due ragazzi dietro di me urlare: “Dojeh Ying-gwok! Dojeh Ying-gwok!”, ovvero, “Grazie Inghilterra!”. Il che, dopo quelle immagini, mi ha fatto un certo effetto.
Comunque, quel giorno tutti fotografavano tutto, e leggevano con attenzione anche i pannelli più lunghi: il sogno di qualunque curatore di museo. Un sogno effimero dato che ...[continua]

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