Difficile capire se sia una partita ancora aperta o dall’esito già segnato, quella che si giocherà, tornati alla normalità, sul futuro della scuola. Quando, al netto della retorica sui comportamenti virtuosi del personale, si tratterrà di scegliere se e come capitalizzare le energie e le risorse che si sono mobilitate in queste settimane per mettere il nostro sistema scolastico nella condizione di rispondere alle domande radicali indotte dallo sviluppo e dalla diffusione delle tecnologie della comunicazione. A guardare la luna invece del dito, vediamo che la pandemia non ha colto impreparata la scuola (non più di quanto abbia colto impreparato chiunque per le modalità con le quali si è presentata e diffusa), ma ha messo a nudo l’inadeguatezza cronica delle politiche scolastiche caratterizzate, alternativamente da tagli e interventi settoriali.
Ce lo dicono molti indicatori, quali il milione e mezzo di studenti che non possono utilizzare regolarmente i device, l’assenza di indicazioni certe rispetto alla tutela della privacy nel trattamento dei dati degli alunni (pensiamo che le piattaforme più usate sono quelle dei big di internet), la mancata formazione dei docenti, punta dell’iceberg di una politica scolastica incapace di riforme; possiamo ben dire che l’ultima degna di questo nome sia la riforma della scuola media del 1963. Le scelte maturate in queste settimane sulla scuola sono tutte tese a fronteggiare una situazione inedita; il fatto che per un intero quadrimestre tutta l’attività scolastica, inclusa la valutazione degli apprendimenti e, forse anche gli esami, avviene a distanza. In questa direzione vanno, ad esempio, gli stanziamenti previsti per adeguare o acquistare piattaforme e strumenti digitali e per colmare le differenze socio-economiche tra gli studenti, prevedendo anche l’acquisto di pc e tablet da concedere in comodato d’uso o l’assunzione temporanea di mille assistenti tecnici che vadano a coadiuvare le scuole nell’utilizzo degli strumenti di didattica a distanza.
Se è vero che anche nella scuola nulla sarà come prima, è questo il momento di mettere a fuoco alcune priorità e indicare fin da subito le scelte che andranno fatte. In tal senso è particolarmente significativo il documento messo a punto dal Gruppo educazione del “Forum disuguaglianze e diversità-Forum DD”, che accompagna l’analisi della situazione con una serie di indicazioni tese a “contrastare e ridurre le disuguaglianze nelle opportunità d’istruzione e formazione”, attraverso interventi che mirano a potenziare e orientare l’utilizzo delle risorse nelle aree di massima concentrazione della povertà educativa.
Tutti gli insegnanti, anche quelli meno digitali, stanno familiarizzando con le tecnologie con una straordinaria attenzione a mantenere, pur in una condizione complicata, una relazione educativa fatta di ascolto e vicinanza, suggerimenti e supporto anche per i più fragili. Ma se la partita che si gioca in questa vicenda riguarda il cambiamento necessario del sistema, serve consapevolezza che la didattica a distanza è solo una parte, importante ma piccola, dell’innovazione necessaria nelle nostre scuole. Innovazione è forse un termine troppo blando per evocare un processo che riguarda l’insieme delle scelte di politica scolastica che dovrebbero essere assunte per mettere la scuola e quindi la nostra società in grado di affrontare i cambiamenti epocali nei quali siamo immersi.
Si tratta di iniziare facendo in modo che questa pratica si traduca in un profondo cambiamento della didattica; l’interazione di docenti e studenti con tablet, pc o smartphone attraverso app sfruttate come ambienti di apprendimento, permette di superare la lezione frontale dando vita a modalità didattiche co-costruttive e cooperative. Il rischio vero è invece che gli stessi strumenti si diffondano come dispositivi per far scuola come si è sempre fatto, che si continuino a privilegiare libri di testo, lezione frontale, compiti, interrogazioni.  Esito tutt’altro che improbabile se prendiamo ad esempio la mole di materiali che vengono messi in rete in queste settimane, che sono, nei fatti, in buona parte, la traduzione in file del tradizionale materiale cartaceo o la trasposizione via internet della lezione frontale in presenza. Viceversa costituiscono un importante punto di riferimento le esperienze di insegnanti, scuole e reti di scuole già impegnate sul fronte dell’educazione 2.0 che potranno rivestire un ruolo importante a emergenza finita, così come andranno ricontestualizzate e valorizzate le conoscenze e le competenze che gli insegnanti, autonomamente, maturano in questi mesi aderendo alle numerose offerte anche di qualità presenti in rete di webinar, video lezioni e corsi di formazione spesso gratuiti.
Capitalizzare al meglio questa situazione significa avviare un processo per cui, mettendo la scuola al centro della ripresa, facendo tesoro delle numerose esperienze ormai consolidate e valorizzando le competenze di docenti pionieri, l’educazione con i media e, soprattutto, la media education, diventino l’asse portante di un sistema educativo che si pone l’obiettivo di formare cittadine e cittadini in grado di conoscere, padroneggiare e utilizzare le tecnologie multimediali. È una questione di cittadinanza. Serve un’azione riformatrice che nasca dalla consapevolezza che diversamente si rischia l’aumento delle disuguaglianze e la crisi del sistema democratico.
La situazione nel nostro paese è su questo fronte allarmante, come ben illustrato da molte analisi e contributi autorevoli; tra questi segnalo i volumi Apprendere in digitale (Bagnara, Campione, Mosa, Pozzi Tosi, Guerini e Associati 2014) e il recente Media education in Italia (Bruni, Garavaglia, Petiti, Franco Angeli, 2019) che forniscono anche dati interessanti sulla situazione italiana e internazionale
Quali strade prendere per avviarci nella direzione giusta? Non è dato sapere quali scelte politiche seguiranno a questa fase emergenziale e, se sono indagate le difficoltà vissute dai bambini e dalle famiglie, rimane nel cono d’ombra la fatica di milioni di insegnanti ai quali è stato improvvisamene chiesto di cambiare radicalmente il proprio modo di lavorare. Fatica che trapela dalle testimonianze che girano sul web (ad esempio nel sito di OrizzonteScuola.it) dove trova voce anche il giusto orgoglio di chi negli anni si è speso, spesso a livello individuale, in percorsi di innovazione metodologica e didattica, ma che rischia oggi di sottovalutare la necessità di interventi di sistema che comprendano anche l’organizzazione del lavoro. Intendo dire che questa non è una partita che si gioca tra un centro che dà indicazioni, magari buone e condivisibili, ed esecutori; occorre che molte energie vengano spese proprio per assicurare la disponibilità convinta degli insegnanti a una rivoluzione del proprio modo di lavorare della quale l’attuale modalità della didattica distanza è solo una pallida rappresentazione. Non è utile limitarsi a far conto sulla disponibilità dei singoli e a sollecitare la circolazione dell’esistente. Non solo non è sufficiente, ma rischia di aumentare il senso di inadeguatezza, la frustrazione di molta parte del corpo docente, al quale serve offrire percorsi di formazione e occasioni diffuse di confronto per averne un’adesione convinta. Così come serve il coinvolgimento delle parti sociali nel processo di ridefinizione dell’organizzazione del lavoro per come cambiano tutti gli elementi costitutivi del profilo professionale.
L’immagine della scuola pubblica gode oggi di una popolarità in positivo; sarebbe importante che le élite intellettuali, gli esponenti di spicco del mondo dell’informazione scegliessero di fare del futuro della scuola un cardine del loro pensiero e delle loro azioni. Così per ora non è e, al di là delle affermazioni di rito, la scuola è considerata affare di chi ci sta dentro e quando se ne parla raramente si va oltre una manciata di riflessioni a ridosso di un qualche fatto di cronaca. Dopo aver letto l’intervista a Galli della Loggia (numero 161 di “Una città”) mi è venuto spontaneo il confronto con quanto ho trovato in due recenti letture. La prima Gramsci per la scuola (Benedetti, Coccoli, L’asino d’oro edizioni, 2018), una puntuale ricostruzione del pensiero di Gramsci sui temi dell’educazione, attraverso una ricognizione dei suoi scritti, che si conclude con un tentativo, a mio avviso maldestro, di attualizzarne il significato; la seconda, la bella riedizione di Democrazia e educazione di J. Dewey (curata da Giuseppe Spadafora, Edizioni Anicia 2018), un testo del 1916. Il pensiero di questi due giganti del secolo scorso pone la scuola al centro dello sviluppo sociale e si articola in riflessioni e proposte che tengono insieme gli scopi, i contenuti, i metodi e l’organizzazione del sistema educativo del quale viene enfatizzata la dimensione pubblica. Di grande interesse anche il contributo di Massimo Baldacci Democrazia ed educazione: una prospettiva per i nostri tempi che mette in evidenza l’intreccio profondo tra politica e pedagogia nel pensiero deweyano1.   
Ecco quello che servirebbe oggi, magari iniziando a dar voce e a diffondere quanto si muove sia come elaborazioni teoriche nelle università, sia con una valorizzazione delle esperienze nazionali e internazionali più significative. A questi scopi dovrebbero essere ricondotte anche le analisi delle cause dei mali della scuola, diversamente è inevitabile presentare idee e proposte ferme alle dinamiche del secolo scorso e a consolarsi con il fatto che... è tutta colpa del sessantotto.

1.http://romatrepress.uniroma3.it/wp-content/uploads/2019/05/Democrazia-ed-educazione-una-prospettiva-per-i-nostri-tempi.pdf.