Dopo otto settimane di udienze serrate alla Corte di assise nel monumentale e quasi fatiscente palazzo di giustizia di Bruxelles, a fine dicembre si è finalmente concluso il quinto processo belga per il genocidio dei tutsi in Rwanda nel 1994. L’imputato, Fabien Neretsé, è stato considerato colpevole di genocidio e di vari crimini di guerra e condannato a 25 anni di reclusione. Di fronte alla richiesta del pubblico ministero di una condanna a trent’anni, solo l’attenuante dell’età avanzata è stata considerata e ha portato alla riduzione della pena di cinque anni. La scusante del contesto generale che avrebbe influenzato l’imputato, utilizzata in altri processi, non è stata accolta; come detto giustamente dal procuratore: “Non è che perché il vicino va ad ammazzare sono autorizzato a farlo pure io”; sarebbe stata inoltre un’attenuante incongruente se applicata a un’organizzatore dei massacri. È pesato pure il fatto che Neretsé, durante il processo, non abbia mai mostrato rimorso né alcuna empatia per le vittime.

Fabien Neretsé, ex alto funzionario dell’Office national du café, è un ruandese di 71 anni, originario della regione di Ruhengeri, nel nord del Rwanda, zona di origine anche del presidente Habyarimana, del cui entourage politico tra l’altro faceva parte. è stato accusato in particolare di avere provocato la morte di nove persone, suoi vicini di casa nel quartiere di Nyamirambo a Kigali. Si tratta di vari membri delle famiglie Sissi, Gakwaya e Bucyana-Beckers, quest’ultima famiglia composta dalla belga Claire Beckers, da suo marito Isaïe Bucyana e dalla loro figlia Katia. I fatti sono avvenuti nello stesso quartiere in cui viveva Yolande Mukagasana, vincitrice insieme a Jacqueline Mukansonera del premio Alexander Langer 1998 e che racconta la sua storia nel bel libro La morte non mi ha voluta.
Neretsé è anche accusato di aver ordinato l’assassinio di almeno due persone, Joseph Mpemdwanzi e Anastase Nzamwita, nel maggio-giugno a Mataba, suo paese natale, dove era considerato un “benefattore”. Nel 1989 aveva fatto costruire una scuola imponente, che secondo varie testimonianze sarebbe stata finanziata con fondi di un progetto agricolo della Banca mondiale di cui Neretsé si sarebbe appropriato in modo indebito. Pendeva su di lui anche l’accusa di aver promosso, armato e diretto una interahamwe, una delle milizie responsabili di grandi massacri in giro per il paese durante il genocidio.
Alla fine del genocidio, Fabien Neretsé era scappato prima nella Repubblica democratica del Congo, poi nella Repubblica centrafricana e infine si era stabilito in Francia dove aveva cambiato il cognome in Nsabimana e aveva ottenuto lo status di rifugiato. Nel 2011 era stato arrestato in Francia su richiesta belga, ma ha trascorso solo qualche mese in  prigione e durante l’iter del processo era in libertà.

è importante ricordare che in Belgio nel 1993 è stata promulgata la legge di “competenza universale” che permetteva di giudicare anche persone non presenti sul territorio. Successivamente la legge è stata a più riprese modificata e in certi campi anche limitata (a un certo punto per molti capi di stato era diventato difficile venire ai vertici della Nato a Bruxelles senza rischiare di essere arrestati, per cui la Nato ha minacciato di trasferire il suo quartier generale).
La legge ha avuto un carattere innovativo anche rispetto agli strumenti internazionali che doveva applicare, perché copriva pure i crimini di guerra commessi all’interno di un paese. Nel 1999 la competenza universale è stata estesa ai crimini contro l’umanità e al crimine di genocidio.  
Questo quinto processo sul genocidio in Rwanda si svolge parecchi anni dopo quelli che si sono tenuti rispettivamente nel 2001 (tra gli imputati anche due suore benedettine che avevano consegnato ai massacratori moltissimi tutsi rifugiatisi nella chiesa); nel 2005, 2007 (contro il responsabile dell’uccisione della prima ministra rwandese hutu moderata Agathe Uwilingiyimana e dei dieci caschi blu belgi che la scortavano) e nel 2009.  
In Belgio è il primo processo in cui è stato introdotto il capo d’imputazione “crimine di genocidio”, oltre a quello di crimine di guerra.  
Su questa imputazione di genocidio, il procuratore Arnaud d’Oultremont si è soffermato a lungo nella sua requisitoria e ha rassicurato la giuria sulla sua legittimità a giudicare: “Un genocidio ci riguarda tutti, riguarda l’umanità intera e quindi ognuno di noi”. “Questo genocidio è inimmaginabile, eppure c’è stato. Perché è stato commesso? Ancora oggi è difficile spiegarlo tanto questo va al di là della capacità di comprensione”.
Definendo il genocidio un “attacco irrimediabile all’umanità intera e una volontà di sterminio dell’altro”, ha indicato l’importanza di questa condanna, anche come messaggio per tutti i genocidari.

Lo svolgimento del processo è stato complesso: dopo venticinque anni sono emerse delle contraddizioni nelle testimonianze rispetto a quanto affermato durante l’istruzione del dossier. Ciò nonostante le dichiarazioni delle parti civili e di vari testimoni dei massacri sono risultate decisive.
Particolarmente toccanti le testimonianze della sorella di Claire Beckers Bucyana, Martine, che ha avuto un ruolo fondamentale come parte civile in questo processo, e dei nipoti di Isaïe Bucyana, che hanno raccontato le giornate cruciali dell’8 e del 9 aprile, cioè all’inizio del genocidio.   
Tutto si è svolto nel quartiere di Nyamirambo. Le interahamwe e i militari erano andati a cercare Bucyana già l’8 aprile, ma lui non c’era; avevano perquisito e maltrattato i presenti e poi se ne erano andati in cambio di soldi. La moglie Claire pensava che il fatto di essere belga avrebbe potuto aiutarli e aveva cercato di contattare l’ambasciata belga; dalla missione Onu Minuar le era stato risposto che non sarebbero riusciti ad andarli a prendere e che erano loro a doversi spostare.
Il 9 aprile si erano riuniti insieme ad altri dai loro vicini di casa, i Sissi, per andarsene. È lì che sono stati presi.  L’ultimo contatto telefonico di Martine con sua sorella risale a mezzogiorno.
Il 10 aprile alle 8 un’amica l’aveva chiamata per dirle che la sua famiglia (la sorella, una nipote e il cognato) era stata sterminata. Gli altri due figli della coppia non erano in Rwanda, Céline era in Belgio a studiare e Laurent nel 1991 aveva raggiunto in modo clandestino l’Fpr, guidato da Paul Kagame, in Burundi.

Nel settembre del 1994, Martine Beckers e la nipote Céline erano andate in Rwanda per due settimane ed è allora che avevano sentito per la prima volta il nome dell’accusato. Erano inoltre venute a sapere che i nipoti di Isaïe, Régine e Emmanuel, il cui padre era un allevatore e che erano ospiti lì per studiare, erano miracolosamente vivi, malgrado fossero presenti il giorno del massacro. In questa prima visita, Martine e Céline non avevano chiesto ulteriori dettagli. Ancora nell’audizione del 2001, Régine aveva difficoltà ad esprimersi.
Ora Régine, infermiera di 41 anni, che all’epoca aveva 16 anni, è in grado di raccontare. Il 9 aprile si erano presentati i militari e le interahamwe, avevano sparato prima a Claire, dicendo: “Anche i belgi sono dei cafards, degli scarafaggi... diamo l’esempio cominciando da loro”. Régine si era buttata per terra. Anche il fratello Emmanuel era caduto, sotto il corpo di Katia. C’erano stati molti spari. I due ragazzi erano poi scappati trovando riparo nella casa di un vicino e avevano passato la notte nascosti in bagno.  
In seguito Régine aveva visto gli assassini cercare lei e il fratello tra i cadaveri e, non trovandoli, tornare a cercarli a casa loro. Régine ha affermato che sapevano tutto di loro, della radio che avevano a casa, del figlio di Claire e Isaïe, Laurent, che era nell’Fpr.
Neresté, secondo alcune testimonianze, avrebbe detto “nessun tutsi deve scamparla”. Già nell’ottobre del 1993, durante una manifestazione allo stadio nell’occasione dell’assassinio con un colpo di stato del primo presidente burundese eletto, l’hutu Melchior Ndadaye, la moglie di Neretsé pare avesse indicato le case dei tutsi che dovevano essere attaccate dalle milizie. Fin dal 1990 molti intellettuali tutsi erano stati arrestati, tra cui i Sissi. L’atmosfera era molto tesa da tempo; dopo la firma degli accordi di Arusha tra il 1992-93 che prevedevano la condivisione del potere con i tutsi, i duri del regime avevano cominciato a prepararsi.

Sui massacri avvenuti a Mataba è stata importante la testimonianza di un ex interahamwe pentito che ha spiegato il funzionamento della macchina genocidaria, in cui i guardiani della scuola fondata da Neretsé avevano svolto un ruolo importante. Le istruzioni erano le sguenti: mettere dei segni sulle case dei tutsi, far sparire le tracce delle vittime uccidendole direttamente sul fiume Nyabarongo e buttandole in acqua, distruggere le case in modo che nessuno si domandasse dov’erano finiti i proprietari. Di solito gli hutu che aiutavano i tutsi non venivano uccisi dai vicini, ma da milizie provenienti da altre colline.

Il processo è stato molto duro anche per l’atteggiamento della difesa, spesso aggressiva e offensiva nei confronti delle vittime e delle parti civili, in particolare di Martine Beckers, ma anche della Corte (col tentativo di destabilizzarla). La difesa ha inoltre sostenuto idee revisioniste e negazioniste sul genocidio del 1994, come si è visto chiaramente quando ha attaccato anche personalmente la giornalista di Le Soir, Colette Braeckman, in occasione della sua testimonianza.  

Neretsé ha negato tutte le accuse e ha cercato -vanamente- di presentarsi come un difensore dei tutsi -sua madre ne avrebbe aiutati alcuni. Molte le testimonianze della difesa, di cui alcune destinate a mostrare la sua “moralità”, e molti i dubbi degli avvocati delle parti civili sulla “preparazione” di vari testimoni da parte dell’accusato. Alcune testimonianze erano di difficile comprensione, soprattutto quelle realizzate in videoconferenza tramite l’ambasciata belga a Kigali; a volte l’impressione era che il testimone non sapesse perché fosse lì. Contraddizioni, anche tra le dichiariazioni di Neresté e sua moglie sui suoi movimenti a Kigali. Alcune testimonianze sono risultate controproducenti per l’accusato, come quella della sorella  che, alla domanda sul perché alla fine del genocidio non fosse scappata, ha risposto che non aveva fatto niente di male! Un altro testimone ha cercato di dimostrare che nella scuola di Mataba c’erano anche alunni tutsi, ma non si ricordava il nome di nessuno di loro.  
Alla fine del processo, tra le parti civili e i loro amici si respira un’aria di sollievo. La sorella di Claire Beckers, Martine, che ha lottato per venticinque anni affinché fosse fatta giustizia, mi ha raccontato delle sue difficoltà dopo il genocidio e della solidarietà trovata nel collettivo delle parti civili, creato a Bruxelles dalla diaspora tutsi. In seguito si è anche impegnata con un’associazione di sostegno ai sopravvissuti in difficoltà.
La preparazione del processo è stata molto lunga, anche perché la priorità veniva data ad altri dossier, dove forse c’erano più elementi. Attraverso varie conoscenze lei è però riuscita ad avere delle informazioni sulla residenza di Neretsé in Francia, che ha trasmesso alla polizia.

Martine ha parlato anche del problema del mancato sostegno, pure finanziario, per le vittime e i loro familiari. In altri paesi, come per esempio in Svezia, sono stati stanziati dei fondi, mentre in Belgio sono le parti civili a doversene occupare. è per questo che molti ruandesi non riescono a portare avanti i processi. è un problema di giustizia e di democrazia. Per fortuna ci sono molti avvocati interessati e impegnati. Un gruppo di ruandesi ha creato il “Groupe de soutien aux Parties civiles - Assises Bruxelles Rwanda”, per tenere viva la memoria, sostenere, anche moralmente, le parti civili e raccogliere dei fondi per pagare gli avvocati specializzati. Questo sarà decisivo anche per il processo che si dovrebbe svolgere nell’autunno 2020 contro Emmanuel Nkunduwimye ed Ernest Gakwaya, altri due rwandesi imputati di genocidio e crimini di guerra durante il genocidio del 1994.