Il mio punto di vista è un po’ diverso da quelli sentiti fin qui perché provo a collocarmi dal lato del bicchiere mezzo pieno rispetto a quello del bicchiere mezzo vuoto. Intendo dire che quando si confronta la condizione attuale con le epoche passate ci si divide tra chi vede tutto nero e chi, come nel mio caso, tende a pensare: “Beh, poteva andare anche peggio” e a chiedersi di conseguenza le ragioni che spiegano la sopravvivenza, la persistenza, a volte perfino il rafforzamento di determinate strutture sociali o organizzative. Pertanto la prima domanda da farsi, a mio avviso, è: come mai il sindacato italiano, il sindacato confederale, in generale il sindacato europeo, continentale, non è stato travolto dall’onda montante della rivoluzione digitale, della globalizzazione e delle politiche neoliberiste? Di sicuro poteva andare molto peggio, basta guardare al declino sindacale in Inghilterra o negli Stati Uniti, ben raccontato nel recentissimo documentario di Steven Bognar e Julia Reichert, American Factory (pubblicato su Netflix con il titolo Made in Usa. Una fabbrica in Ohio).
 
Chiunque guardi ai dati della sindacalizzazione, dopo il punto massimo di fine anni Settanta, osserva una forte caduta del tesseramento lungo quasi tutti gli anni Ottanta, poi le cose cambiano e il declino rallenta vistosamente, per poi registrare dei recuperi, per quanto limitati. Se il trend degli anni Ottanta fosse proseguito con lo stesso andamento negativo, oggi i tassi di sindacalizzazione sarebbero sotto il 20%, invece si mantengono intorno al 30%, a seconda dei metodi di calcolo più sopra la soglia del 30% che sotto. Come mai questa “resilienza” sindacale? Si tratta cioè di spiegare perché il sindacato italiano, almeno dal punto di vista organizzativo, abbia mostrato a partire dai primissimi anni Novanta in poi una tenuta maggiore rispetto a larga parte dei sindacati dei paesi avanzati. Di questo successo organizzativo del nostro sindacalismo si parla poco o nulla, anzi quasi ce ne vergogniamo, per la semplice ragione -suppongo- che porterebbe alla luce aspetti del modello organizzativo confederale non del tutto compatibili con le retoriche sindacali di tipo tradizionale, tutte rivolte alla rappresentanza sui luoghi di lavoro, e poco o nulla interessate alle tutele specifiche dei singoli lavoratori (e dei cittadini) in carne e ossa.

Parlare delle ragioni per cui il sindacato -lo ripetiamo, dal punto vista organizzativo- è andato meglio del previsto, significa infatti parlare di alcuni effetti non previsti di azioni (in parte) non volute. Questo sarà un po’ il filo del mio intervento, iniziando con quattro prime osservazioni. La prima è che la storia non va a senso unico, come a volte in modo ingenuo tendiamo a pensare, ma ci possono essere momenti di arretramento, tanto per quanto riguarda la forza dei diversi gruppi sociali quanto delle loro espressioni rappresentative, siano essi movimenti, sindacati o partiti. Di conseguenza la domanda diventa: come si organizzano le ritirate? Come si gestiscono le fasi storiche nelle quali i rapporti di forza sono sfavorevoli?
Come è ben noto, Gramsci ha riflettuto a lungo negli anni trascorsi in carcere proprio su come sopravvivere alla sconfitta della propria parte, proponendo finanche l’idea di una qualche compromissione sul terreno avversario, come quando suggeriva strategie “entriste” nel sindacalismo di regime. Il punto che era ben chiaro in Gramsci era la necessità assoluta di salvaguardare la propria sopravvivenza organizzativa, perché solo a questa condizione si potevano sfruttare le debolezze degli avversari e gli eventuali, magari inattesi, tornanti della storia. Anche questo è un modo di affrontare la questione del sindacalismo. Insomma, il primum vivere è per i sindacati una priorità assoluta, senza la quale il rischio è quello di cadere nella trappola delle cosiddette “sconfitte gloriose”, quelle che si ricordano nelle ballate militanti, ma lasciano i lavoratori privi di qualsiasi tutela organizzata.

La seconda osservazione è la seguente: il sindacato ha perso il suo fascino, non interessa più dal punto di vista intellettuale, è visto con sufficienza dai mezzi di informazione. Già quindici anni fa lo studioso americano Michael Piore prendeva atto della chiusura dei dipartimenti di relazioni industriali nel mondo angloamericano, sostituiti dalle scuole di human relations; con qualche lustro di ritardo la stessa sorte sta toccando agli insegnamenti unive ...[continua]

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