Tralascio il piano dei commenti e interpretazioni -prevalentemente sul versante politico-personale- circa le motivazioni che hanno indotto Renzi e i suoi ad abbandonare il Pd. Prescindo dalla personalità peculiare di questo leader e dal suo stile. Mi interessa piuttosto assumere un altro punto di vista: guardare, cioè, la scissione osservandola dal lato dell’esistenza nella sinistra di due visioni del mondo e altrettante opzioni di politica economica, letture della società, concezioni della prassi politica.
È un bene o un male che seguano percorsi separati? Quelle visioni sono l’una liberale (e democratica), che ritiene che i perseguimenti e le culture della sinistra siano state resi obsoleti dall’evoluzione non modificabile della società; evoluzione che oggi richiede più pragmatismo e soluzioni con essa compatibili. L’altra, si fonda su una cultura critica dell’esistente e non ha abbandonato l’idea di una organizzazione socialista della società, sia pure perseguita nei termini parziali in cui il conflitto sociale, i rapporti di forza e le nuove soggettività consentono di farla avanzare. Parziale sì, ma dominata dalla forza della politica più che dell’economia.
Lo schema è sintetico, ma rende conto di una divaricazione importante che oggi passa attraverso il campo che si oppone alla destra. Se oggi questi due fronti decidono di marciare ognuno per conto proprio non bisogna farne un dramma. È avvenuto anche in altri paesi. Ciascuna visione deve avere il diritto e l’opportunità di perseguire la sua proposta politica e sperimentare le proprie ipotesi in un raggruppamento politico autonomo.
Una separazione dei destini è perfino salutare. Certo, è preferibile alla paralisi, alla schermaglia, ai partiti nei partiti, che sorgono nella convivenza forzata. Il pluralismo delle anime e delle sensibilità nello stesso contenitore, se troppo ampio, finisce per essere un alibi per non mettersi in gioco, perché “un conto è il pluralismo inteso come attenzione e rispetto di altre anime e visioni, un altro è per ognuna di esse entrare in competizione con quelle concorrenti, sfidandole e valutandole sulle loro direttrici e realizzazioni. Il pluralismo è competitivo” (come afferma Pasquino).
L’importante è che la competizione non sia tra nemici irriducibili, ma avvenga nella consapevolezza che di fronte all’elettorato (in caso di legge maggioritaria) o a un’esperienza di governo l’avversario è la destra ed è necessaria una convergenza e un punto di incontro, un dialogo non chiuso. Non sarà un “volemose bene”, ma un confronto anche aspro. L’importante è che sia alto ed esplicito: che opponga analisi ad analisi, valutazioni elaborate (anche teoricamente e sociologicamente) a motivazioni elaborate nello stesso modo: non slogan a slogan, recriminazione a recriminazione, tifoseria a tifoseria. Se il confronto fosse di quel tipo, tutta la sinistra crescerebbe, si doterebbe di un’ossatura culturale (e programmatica), il contributo sarebbe idoneo a elevare la discussione in tutto il paese. Nessun dramma quindi dalla scissione, se questa è la modalità con cui le due anime seguono un cammino diverso.
Purtroppo, dal punto di vista dell’elaborazione, la scissione di Renzi è deludente. Nessuna giustificazione se non quell’accenno alla necessità di chiarificazione politica, nessun manifesto che dia le coordinate del pensiero compiuto di chi si separa, niente, oltre il riferimento buttato lì che di “non vedere nel Pd visione del futuro” (e la sua qual è?). Che poi i commentatori parlino di “scissione a freddo” e cerchino solo motivazioni personali e contingenti, non sorprende. Legittimo anche che si chiedano quali siano le ripercussioni oggettive e soggettive sul governo, ma il piano ideal-analitico del discorso lo avrebbe dovuto stabilire Renzi (se avesse avvertito l’esigenza di evitare l’impressione di un movimento di cordate) senza lasciarlo al giornalismo politico.
Non possiamo, però, far finta di non sapere la propensione di chi ha deciso di aderire a “Italia Viva”. Ma non basta per definirsi in modo compiuto. La Leopolda è stata sempre insignificante da questo punto di vista (un approfondimento di suggestioni), la contrapposizione “vecchio e nuovo” non è una categoria analitica, Blair e Giddens sono riferimenti stantii. Lo erano già in Gran Bretagna in epoca pre-crisi, figuriamoci oggi in Italia, ma, se è il caso, vengano tirati in ballo e se ne discuta.
Pur essendo stato decisamente critico verso l’esperienza del Pd renziano (per tutti rimando alla mia interpretazione della sconfitta elettorale https://www.salvatore-biasco.it/wp-content/uploads/Mulino-sul-Pd-trigilia.pdf e ai saggi lì citati), oggi osservo la scissione con una insospettata simpatia per Renzi e ho voglia di augurargli un successo nel suo cammino. Questo non diminuisce lo scetticismo sia sull’attualità della Terza Via (il giudizio storico mi sembra incontrovertibile) sia sulla strategia dello sfondamento in area “moderata”. “È una strategia concepita in nome di una diagnosi sbagliata -cito dalla stesso saggio-, vale a dire l’illusione che in Italia esista un elettorato moderato-liberale verso il quale allargare i confini del consenso, mantenendo anche l’elettorato tradizionale. Quei nuovi confini è stato supposto che abbraccino non solo quell’elettorato ‘centrista’ in parte espresso a suo tempo nella lista Monti, e successivamente già riassorbito nel Pd -ma soprattutto chi si asteneva dal votare il Pd in quanto percepito come ideologico, post comunista e statalista, mentre poteva plaudire alla cancellazione di culture e tradizioni politiche. L’elettore ‘moderato’ -che possiamo raffigurare in una certa borghesia intellettuale e professionale e nei ceti medi produttivi- in questo Paese è, tuttavia, tutt’altro che tale. È di fatto anti-istituzionale, antisindacale, anti-regolazione, anti-tasse, anti-intervento dello Stato. È stato pensato orfano della guida berlusconiana, ma appena ha ritrovato a destra un’offerta politica credibile l’ha afferrata. Inseguirlo vuol dire perdere una funzione pedagogica, che un partito deve sempre avere, e allontanare l’elettorato tradizionale” (fin qui la citazione).
Chiudo con una considerazione su chi resta, sul Pd. Gli eventi sono forieri di una storia feconda se il Pd ne traesse le conseguenze. Oggi ha la grande opportunità di ridefinire la sua identità, teoria, visione, riferimenti sociali, uscendo da quella indeterminatezza che lo rende minoritaria e subalterna testimonianza non si sa di cosa. Oggi ha l’opportunità di porsi in una prospettiva allo stesso tempo di responsabilità e di utopia, nel solco della migliore storia del socialismo democratico. Quella, cioè, in rottura esplicita col neoliberismo e volta a portare masse di persone che vivono in modo differente il disagio di questa società a essere forza di governo, superando il ribellismo ed elevandosi a protagoniste consapevoli del proprio destino.