Questa redazione è interventista (non dalla prima ora, purtroppo: quando nel lontano ’91, dopo averla martirizzata coi bombardamenti, le truppe di Milosevic facevano entrare a Vukovar le squadracce fasciste per il "lavoro a mano”, qui ci si attardava a discettare di "Germania e Vaticano”). Siamo favorevoli all’intervento perché di fronte a massacri di inermi chi può deve intervenire, ma ancor più lo si deve quando il massacro è compiuto per motivi etnici e razziali, quando il bambino, la donna, il vecchio, per il solo motivo di essere nati in un certo modo, diventano veri e propri nemici da sterminare o da terrorizzare al fine di allontanarli per sempre dalla loro terra (ed è in malafede chi non vede che questo ha a che fare con Auschwitz).
Detto questo, aggiungiamo anche che sul chi dovesse intervenire, come pure sulle modalità, finalità, e finanche sulla moralità, delle scelte degli strateghi politici e militari della Nato discutiamo animatamente fin dai primi giorni. Questa presa di posizione non ci impedisce affatto, anzi, di desiderare e ricercare un confronto con chi è contrario in linea di principio all’uso della violenza. In occasione di un incontro dei promotori della nascente fondazione Langer, c’è stata una discussione molto dura, franca e appassionata, che invece di dividere forse ci ha avvicinato e di cui tenteremo di dar conto in un prossimo numero.
D’altra parte, come non riconoscerlo? Sono loro, i militanti pacifisti, a essere andati là, in Kosovo, per anni, a portare aiuto e ad averci raccontato dell’apartheid e del tentativo dei kosovari di resistere con la non-violenza; sono loro ad aver lanciato l’allarme per tempo, trovando spesso, va pure detto, l’indifferenza dei più. E sarà bene anche prestare la massima attenzione alla riflessione che i militanti della non-violenza portano avanti da tempo sulle possibili alternative all’uso della forza, sulle forze di pace, di interposizione, sul concetto di ingerenza umanitaria, su una possibile polizia internazionale, perché tale riflessione può essere carica di futuro. La nostra speranza è che sul presente, quei militanti possano prevedere l’eccezione che conferma una regola e che non alzino le braccia, disperati, all’inizio della precipitazione dello scontro, quando il peggio può ancora essere evitato e un dittatore che da anni semina sofferenza, morte e distruzione definitivamente fermato. A quei militanti, però, vorremmo anche rivolgere un invito, ed è accorato: non perdano di vista le differenze, non dicano più che la guerra è il peggior crimine contro l’umanità perché questo è falso. Fra stare sotto i bombardamenti a Londra o a Berlino ed essere caricati sui carri bestiame per Auschwitz, dove all’arrivo la propria madre verrà sospinta da un’altra parte, c’è differenza (in ultima, ne parla Settimia Spizzichino). Così come vivere in una città sotto bombardamento, foss’anche indiscriminato (ed è evidente che quelli Nato, almeno nelle intenzioni, non lo sono mentre lo è stato, e per più di tre anni, quello di Sarajevo da parte delle forze serbe!) non è la stessa cosa che abitare a Pristina quando passavano a segnare le case o quando, in una casa isolata delle colline del Kosovo, moglie e marito hanno sentito arrivare la soldataglia. Chi non vede e non fa vedere le differenze, non fa opera di verità e diseduca i ragazzi.
Cercheremo, sul giornale, non solo di pubblicare interventi contrari all’intervento (cominciamo da questo numero) ma di stimolare il più possibile il dibattito.
Abbiamo meno voglia di discutere, anche se tenteremo di farlo, con quei pacifisti che, accecati dall’antiamericanismo, hanno partecipato senza provare ribrezzo a cortei dove, insieme alle bandiere rosse con l’effigie del Che, c’erano le stesse bandiere serbe che là sventolano fra le fosse comuni. Ci sono comunisti, invece, il cui cuore batte veramente, e si sente, con i nazional-comunisti di Belgrado: con loro non val più la pena parlare. A Mosca, in Serbia, e ora anche qui, il giro di 180 gradi è compiuto: sono dall’altra parte, insieme agli altri fascisti. (maggio 1999)