Ora che lo shock delle elezioni 2016 sta diminuendo, i progressisti devono riflettere. Purtroppo, l’autocritica non è mai stato un punto forte della sinistra americana: i suoi membri preferiscono interpretare il ruolo della vittima. Il trionfo di Trump non era inevitabile o irresistibile. Qui di seguito alcuni pensieri che potrebbero aiutare a riflettere.
Il presidente Obama è stato corretto nell’affermare che una linea retta collega la nomina di Sarah Palin a vicepresidente degli Usa nelle elezioni del 2008 al trionfo di Donald Trump otto anni dopo. Ma pochi hanno capito il fascino di un’ideologia reazionaria divenuta sempre più accettabile e ancora meno si aspettavano che il suo principale difensore avrebbe semplicemente sopraffatto il successore "unto” da Obama, cioè l’ex Segretario di Stato, Hillary Clinton.
Va detto che gli attacchi esagerati e senza fondamento relativi a quello che è diventato lo scandalo delle e-mail e dei loschi traffici della Fondazione Clinton, e l’offensiva (altrettanto ingiustificata) sul suo presunto coinvolgimento in complotti di vario tipo hanno avuto un impatto terribile.
Ma c’è un altro lato della storia.

Troppa giovialità e troppe battute compiacenti hanno accolto le quotidiane denigrazioni di Donald Trump verso una famiglia di militari "medaglia d’oro”, verso i disabili, le donne, i messicani e i musulmani, mentre la campagna di Hillary scivolava da una sana fiducia a una sempre più fastidiosa arroganza e senso di superiorità. Gli esperti e i mezzobusti sono stati smentiti: l’antipatia e la diffidenza verso un candidato sono risultate più forti del disgusto per l’ignoranza e il bigottismo dell’altro.
I media progressisti come Msnbc e molte star inflazionate hanno mostrato un’ipocrisia senza precedenti. Ergendosi a difensori della civiltà occidentale hanno attaccato Trump giorno dopo giorno con una spocchia insopportabile. I tassi di gradimento favorevoli hanno spinto Hillary sempre più in secondo piano rafforzando così l’idea che l’unico significato della sua campagna era che lei non era Trump. Mentre sbeffeggiavano la sua presunta incapacità di reperire fondi per la campagna, i media progressisti offrivano a questo bizzarro candidato neofascista milioni di dollari in pubblicità gratuita, dimenticando il vecchio adagio: "Meglio essere attaccati che ignorati”.
Nel frattempo, i fallimenti di Hillary venivano elusi o scusati. Poco è stato detto circa gli oltre quattrocento delegati assegnati a lei prima ancora che le primarie iniziassero, e dei tentativi (guidati dall’ex presidente del Comitato nazionale del Partito Democratico Debbie Wasserman Schulz e dalla sua vice Donna Brazile) di manipolare la campagna per le primarie presidenziali di Bernie Sanders. Pensavano che ci si sarebbe passati sopra man mano che la campagna procedeva. Non è stato così. Gli addetti ai lavori della Clinton hanno cercato di mettere in evidenza la sua straordinaria preparazione politica per rivestire la più alta carica, il suo pragmatismo, e l’impatto rivoluzionario della rottura del "soffitto di vetro” con l’elezione di una donna. Ma il suo sostegno alla guerra in Iraq è stato più di un "errore” e la sua preparazione non poteva giustificare il suo coinvolgimento nella debacle della Libia, l’appoggio a una no-fly zone sulla Siria e il Sudan, la sua visione anacronistica della Nato, e il suo sostegno a politiche commerciali neoliberali. Prendere in giro l’ignoranza e la stravaganza delle idee di Trump non ha sedato il senso di disagio per le sue possibili future avventure interventiste.

Avrebbe potuto funzionare con un altro candidato. Ma non con Hillary. Il suo pragmatismo si riduceva a una visione non solo conservatrice, ma molto meno ispiratrice delle proposte fatte da altri democratici radicali e, in linea con la sua visione neoliberista, ha subordinato le questioni di classe alle preoccupazioni identitarie. A questo proposito, i suoi consulenti hanno sovrastimato il voto delle donne bianche, le quali hanno messo davanti l’essere bianche al fatto di essere donne, perché dalla loro "razza” vengono i loro privilegi. La campagna di Clinton ha semplicemente dato per scontato che i lavoratori bianchi legati alle anacronistiche industrie della Rust belt, la "cintura della ruggine”, del Midwest avrebbero votato per lei nonostante il suo vacillare sul tema del libero scambio, un poco convincente appello di classe e una politica estera interventista.
A Hillary mancava ...[continua]

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