A sessant’anni suonati ti viene voglia di fare dei bilanci, ma non è per nulla facile quando pensi che in tutta la tua vita trentacinque anni li hai trascorsi in carcere, di cui venticinque ininterrottamente. A volte non capisco come ci sia riuscito. Ogni singolo giorno, in carcere, assomiglia al precedente perché sono tutti uguali. E ti passa la voglia di fare qualsiasi cosa. Rimandi tutto all’indomani. Poi l’indomani arriva, e ti arrabbi perché non l’hai neppure sentito arrivare. In carcere sono lunghe le settimane, i mesi e gli anni, ma più lunghi di tutti sembrano i secondi, i minuti e le ore.
Penso che in carcere non vivi, ma vieni vissuto. Forse per questo l’esistenza in prigione ti sembra vuota e senza scopo. E vieni risucchiato in un pozzo nero. Per venticinque anni ho sempre pensato che mi avrebbero liberato solo quando sarei morto o quando avrei finito di scontare la mia pena, cioè nell’anno 9999 com’è scritto nel mio attuale certificato di detenzione. E non vi nascondo che, ormai, avevo finito tutti i ricordi di quand’ero un uomo libero. Per fortuna, da circa un anno, grazie a un’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Venezia che mi ha tolto l’ergastolo ostativo che mi vietava di usufruire di qualsiasi beneficio, ho iniziato ad avere dei permessi premio. Adesso, ogni volta che esco e rientro in carcere ho dei nuovi ricordi, che mi aiutano a fare sera e a fare mattino e ad aspettare l’anno 9999. In galera hai poche possibilità di scelta perché spesso è l’Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamo io) a condizionare il comportamento e il pensiero. È difficile che il carcere non riesca a istituzionalizzare il detenuto e a farlo diventare una cosa fra le cose. Va a finire che ti dimentichi da dove vieni e chi sei. Col passare degli anni non pensi, non sogni e non ti batti più perché, ormai, ti sei adattato a stare in prigione. Forse perché questa è l’unica maniera che ti è rimasta per continuare a sopravvivere. Purtroppo però sopravvivere non è come vivere. Solo una volta che vai fuori ti accorgi dei danni che ti ha arrecato la prigione. I miei nipotini, ad esempio, sorridono quando, in pieno inverno, mi vedono levarmi le scarpe e le calze per camminare a piedi nudi sulla sabbia, o quando mi vedono toccare con le mani l’acqua del mare e leccarmi le dita per assaggiare se è salata come me la ricordavo. I miei figli sospirano quando mi vedono passeggiare avanti e indietro o in cerchio per la sala da pranzo come una belva in una gabbia. Affettuosamente e con pazienza m’invitano a stare fermo. E mi ricordano che non sono in una cella. Mi siedo, ma subito dopo, senza pensarci, incomincio di nuovo a fare avanti e indietro per la casa. Alla mattina, quando mi sveglio, mi sembra strano non sentire urla che rimbombano nei corridoi o il rumore di cancelli, dei blindi, delle chiavi che scattano nella serratura. Mi sembra strano non sentire neppure il chiasso dei rumorosi sciacquoni dei gabinetti o quello del carrello del vitto che sferraglia ai soliti orari. E mi sembra ancor più strano non vedere guardie intorno a me, ma solo la mia compagna che mi copre di gesti affettuosi. Arriva però sempre troppo presto il giorno di rientrare in carcere. Lancio un’occhiata dalla parte della strada che porta all’entrata dell’Assassino dei Sogni. E vedo che quel grosso cancello è il confine fra il mondo dei vivi e quello dei morti. Poi penso al mio fine pena, quello che non ho. E mi domando perché continuano a farmi pagare qualcosa che ormai è così lontano dal mio presente. Penso: "Perché mi fanno questo?”. Poi, però, non penso più, perché sono di nuovo in carcere.
Carmelo Musumeci, Padova
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