Chiaromonte questo mondo lo conosceva bene e nell'unico modo mediante il quale si può conoscere e giudicare, che è quello della speculazione teoretica mai disgiunta dall'azione pratica. Era un intellettuale impegnato nel miglior significato di un'espressione così spesso abusata da coloro che esauriscono l'impegno in una distratta firma sotto un documento. Aveva cominciato assai presto preferendo subito l'esilio al compromesso con il fascismo. A Parigi furono anni difficili ma entusiasmanti, a contatto con il meglio della cultura europea, gli Anni Trenta, gli albori della grande concentrazione di intellettuali e di popoli che doveva sconfiggere il fascismo. Anni di fame, per chi, come lui non aveva neppure un passaporto in tasca e che, nato nel 1905 in un remoto angolo d'Italia, la provincia di Potenza, aveva appena cominciato a farsi un nome come critico letterario con qualche scritto su «Solaria».
La guerra di Spagna scoppiò come una folgore su questo ambiente composito, pieno di sprezzature e di polemiche, vivo e sollecitante quale altro l'Europa ha mai più conosciuto nel corso dei suoi lunghi, ulteriori malanni. Tutt'altro che aderente all'attivismo estetizzante di un Malraux (la cui concezione della Storia come «palcoscenico» sul quale si possono realizzare dei «miraggi epici» avrà a criticare nel suo ultimo volume di saggi, edito l'anno scorso con il titolo di «Credere e non credere»), Chiaromonte si arruola volontario in esaudimento di un puro dovere morale, e combatte dalla parte dei « rossi». Non è un segreto che lo stesso Malraux adombrò il suo personaggio in uno dei protagonisti de «La condizione umana». Di tutto ciò, del passato, egli non amava parlare affatto. Si teneva attaccato al presente e aperto verso il futuro. Il suo ultimo impegno critico, quello di ieri, è siate rivolto al libro di Jean-Francois Revel «Né Cristo né Marx». Poco prima della fine aveva promesso di commentare, la settimana prossima, il volume «Incontri e scontri col Cristo». Lontano da ogni scetticismo, egli restava tra i pochi intellettuali italiani a saper captare ed intendere, oltre le beghe dell'aiuola domestica, i grandi filoni del pensiero, i tormenti dell'uomo
di oggi. Lavorava dunque sulle scelte grandi e fondamentali, fuori dalle mode e dalle polemiche marginali. I suoi ultimi interlocutori, nel libro già ricordato erano stati Tolstoj, Martin du Gard, Pasternak e Stendhai. E' stato un Fabrizio Del Dongo che, in mezzo alla decisiva battaglia di civiltà che si combatte oggi, voleva rendersi pieno conto di ciò che accadeva intorno a lui.
La sua biografia «esterna» è scarna. Dopo il periodo parigino, Chiaromonte fu in America fino al termine della seconda guerra mondiale. Mai iscritto al partito comunista, aderente in Francia al gruppo dei fratelli Rosselli, aveva lasciato l'Europa davanti all'invasione nazista. Doveva ricominciare tutto daccapo. Studiò, insegnò, scrisse. Ai termine del conflitto tornò per qualche tempo a Parigi. Poi rientrò definitivamente in Italia. Con Ignazio Silone, negli Anni Cinquanta, diede vita a una rivista di cultura che fu esemplare: «Tempo Presente». Fu del gruppo che si raccolse intorno al «Mondo» di Mario Pannunzio, critico di teatro lucidissimo. Ha lavorato per tutta la vita.
Lo si incontrava a New York, solitario sotto i grattacieli, innamorato anche lui di quella incredibile città, attento a cogliere i segni del positivo e del negativo che colà si alternano, e a giudicarli con lucida passione. Lo si udiva parlare nelle vaste aule bianche di un «campus» universitario statunitense, ironico e apparentemente distaccato, padrone di un metodo di insegnamento completamente non conformista e moderno. Oppure, ecc ...[continua]
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