Molti degli intellettuali liberalsocialisti furono eletti all’Assemblea Costituente che cominciò i suoi lavori dopo il referendum del 1946, con il quale gli italiani scelsero di darsi una forma repubblicana di governo, e che completò la stesura della Costituzione della Repubblica Italiana alla fine del 1947. Il Manifesto, dunque, fu più che il programma costitutivo di un partito politico. Esso fu anche un documento politico consapevolmente orientato a indicare i principi fondativi di una democrazia costituzionale. In questo senso, la sua ragion d’essere trascendeva effettivamente il fascismo. Come nel caso di "Giustizia e Libertà”, anche nel caso del Partito d’Azione l’opposizione al fascismo era motivata da un intento costruttivo o positivo, non semplicemente di opposizione o negativo. L’antifascismo degli azionisti era la conclusione coerente di una concezione della politica che era normativamente democratica, un esempio unico nella storia italiana e, come le sorti del Partito d’Azione hanno dimostrato, minoritario nell’Italia del dopo guerra.
Il liberalsocialismo fu il grande sconfitto nella nuova Italia democratica. Le prime elezioni libere a suffragio universale decretarono la scomparsa del Partito d’Azione, i cui aderenti presero strade politiche diverse, alcuni entrando a far parte di altri partiti laici e progressisti, altri proseguendo la loro attività intellettuale come studiosi e accademici. Il paradosso delle idee liberalsocialiste fu di essere anacronistiche tanto rispetto alla cultura nazionale italiana, più disposta a riconoscersi in identità comunitarie e di ‘fede’ (cattoliche o comuniste che fossero) che liberali, quanto rispetto all’ordine internazionale che si impose alla fine del secondo conflitto mondiale. Il fallimento del progetto del Partito d’Azione -ovvero l’alleanza delle forze socialiste e democratiche con quelle liberali- facilitò l’egemonia democristiana e il duopolio della politica nazionale tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, un ordine politico che si dimostrò ben presto funzionale all’egemonia democristiana stessa e all’ideologia della Guerra fredda5.
La logica manichea dell’ordine internazionale (e quindi italiano) del dopo guerra ha interrotto la ricerca teorica e politica di una convergenza tra ideali socialisti e ideali liberali e democratici che era iniziata nella seconda metà del diciannnovesimo secolo, con la conseguenza di determinare un irrigidimento ideologico che è stato deleterio per entrambe le tradizioni perché ha contribuito a dissociare l’idea di giustizia sociale da quella di libertà individuale, orientando la prima verso lo statalismo e la seconda verso una concezione minima o negativa della libertà. L’incapacità della sinistra italiana del dopo Guerra fredda di darsi un’identità teorica autonoma dal marxismo e, dall’altro lato, l’identificazione del "vero” liberalismo con lo stato minimo e un mercato deregolato che la destra è riuscita a sedimentare nella recente cultura politica, sono in qualche modo due conseguenze tra loro speculari della sconfitta della strategia liberalsocialista negli anni del consolidamento dell’Italia democratica.
2. Il significato di "terza via” che il socialismo liberale prima (Carlo Rosselli) e il liberalsocialismo poi (il Manifesto) ebbero, risentì sensibilmente della contingenza st ...[continua]
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