Giacché c’è una specie di conformismo, oggi in vigore, che è il più diffuso e, moralmente parlando, il più opprimente di tutti: quello che si esprime nell’imperativo «accettare il proprio tempo». Esso comporta non solo l’obbligo di essere moderni e d’accogliere ogni cosa nuova, inedita o impensata come un fatto positivo e valido di per sé, ma quello di compiere un atto preliminare di sottomissione allo spirito dei tempi, considerando le idee, le opere e i modi d’essere d’oggi come dati indiscutibili, realtà cui bisogna adattarsi e quasi verità rivelate. Si tratta, insomma, d’impegnarsi ad ammirare, o comunque esaminare e discutere, i vestiti dell’imperatore anche se per avventura l’imperatore fosse nudo; giacché la sua nudità va considerata pur sempre una maniera di vestire, preludio dell’invenzione di un abito ancora più nuovo. A un tale imperativo credono vecchi e giovani, conservatori e ‘rivoluzionari’, borghesi e proletari; ma è tipico dei nostri tempi lo spettacolo dei vecchi che corrono appresso ai giovani per applaudirli e incitarli, dei conservatori che gareggiano in ardire con i rivoluzionari, dei borghesi che sposano non richiesti la causa dei proletari o dei guerriglieri. Sempre mossi dallo zelo del moderno, del progressivo, del più avanzato; zelo nel quale, tuttavia, si distingue sopra ogni altra la classe intellettuale.
Ma che cosa significa un simile imperativo? Io sono qui, coinvolto nelle vicende dell’attuale società, sottoposto alle servitù che essa impone, sollecitato da determinati fatti e prodotti culturali. Non mi trovo mai dinanzi a una unità globale (o sistema che dir si voglia), ma sempre e soltanto dinanzi a questo o quell’evento, questo o quel fatto, questa o quella idea, questo o quell’aspetto del costume: centro sinistra, De Gaulle, Praga, neomarxismo, maoismo, arte oggettuale (come chiamare l’esposizione di sei cavalli veri in una bottega d’arte?), teatro di protesta, poesia apoetica, erotomania, razzismo antirazzista eccetera.
Certo, fra tutti questi fatti ci sono analogie, e c’è forse una tendenza comune. Ma le analogie le vedo io, le affermo sotto la mia responsabilità, e, quanto alla tendenza comune, è un’ipotesi, un modo di orientare il giudizio di cui anch’io porto la responsabilità, rischiando, come rischio, di sbagliarmi e di agir male. Ma perché mai dovrei considerare il mondo in cui vivo come una specie di regime autoritario al quale devo sottomissione per il semplice fatto d’esserci nato dentro, quasi che il fatto di esserci nato dentro implicasse l’accettazione di un credo o di un’ideologia: il credo e l’ideologia del «moderno», altrettanto tirannici che equivoci?
Questo io potrei fare in un solo caso: nel caso che esistesse una filosofia la quale mi assicurasse la conoscenza certa del momento attuale e delle leggi del suo moto. In questo caso, evidentemente, io non avrei il diritto di ribellarmi al verdetto della ragione storica.
Ma è proprio l’esistenza di una tale filosofia e la possibilità di una tale scienza che vanno revocate in dubbio: il momento presente è altrettanto evidente nei suoi aspetti reali e nell’urgenza con la quale ci sollecita ad agire e a pensare, che inconoscibile quanto a una sua supposta essenza o legge prima. Anzi, più ci sforziamo d’indagarne l’essenza e la legge, più rimaniamo alla superficie delle cose e degli eventi, incollati all’attualità, vittime delle apparenze, illusi dalle mode e schiavi degli interessi stabiliti. Giacché non è la legge che governa il momento presente che si tratta di scoprire; essa si rivela abbastanza chiaramente nella servitù cui il mondo attuale ci assoggetta e nelle forme di vita e di pensiero che esso ci propone.
Ciò che si tratta di trovare è la nostra risposta a tale legge, se legge è: il nostro giudizio, il nostro modo d’essere, le nostre convinzioni. In breve, la nostra legge, non quella del tempo: ciò che noi non possiamo non essere e non pensare, non una scelta fra le idee e le mod ...[continua]
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