Avishai Margalit è professore emerito di filosofia presso l’Università Ebraica di Gerusalemme. Il suo libro più recente è Sul tradimento (On betrayal, 2019).

Nel 2005, Asa Kasher e Amos Yadlin hanno pubblicato su una rivista accademica americana “Assassinio e uccisione preventiva”, un saggio che esplora la questione dell’assassinio nel quadro della lotta al terrorismo. Ci sono buone ragioni per ritenere che il significato politico e pratico di questo saggio vada ben oltre il suo interesse accademico. Asa Kasher è professore di etica professionale e filosofia della pratica all’Università di Tel Aviv e consulente accademico delle Forze di Difesa Israeliane (Idf). Amos Yadlin è un generale che al momento della pubblicazione dell’articolo era addetto militare dell’ambasciata di Israele a Washington; attualmente [2009] è a capo dell’intelligence dell’esercito israeliano. Gli autori precisano che “le opinioni espres­se nel presente documento sono quelle degli autori e non rispecchiano necessariamente quelle dell’Idf né dello Stato di Israele”. La questione non è tanto se le loro opinioni siano ufficiali o meno, ma se abbiano effettivamente influenza sull’esercito israeliano.
All’indomani dell’intervento israeliano a Gaza, Amos Harel ha sostenuto su “Haaretz” (il 6 febbraio 2009) che le linee guida suggerite nell’articolo fossero effettivamente quelle che regolavano la condotta dell’Idf in battaglia. Da allora questa affermazione è stata talvolta confermata e talvolta smentita dai soldati israeliani. In questa sede non entreremo in questa disputa ma, dato il grande interesse per le regole di ingaggio adottate da Israele nei combattimenti a Gaza, è di fondamentale importanza affrontare l’argomento di Kasher e Yadlin.
Non ci occuperemo qui della questione degli omicidi mirati, che è l’argomento esplicito del documento. Vogliamo invece mettere in discussione quella che secondo gli stessi autori è la loro affermazione più “importante e delicata”. Kasher e Yadlin si chiedono:
“Quale priorità deve essere data al dovere di ridurre al minimo le perdite tra i combattenti dello Stato quando questi sono impegnati nella lotta [...] contro il terrorismo?”.
Quando scrivono di combattenti dello “Stato”, per “Stato” gli autori intendono gli stati in generale, includendo dunque le forze armate dello Stato di Israele. Per “terrorismo” intendono l’uccisione intenzionale di civili, come quella compiuta dai membri di Hamas negli ultimi anni. E questa è la loro risposta:
“Di solito, il dovere di ridurre al minimo le perdite tra i soldati occupa l’ultimo posto -o quasi- della lista delle priorità […]. Noi rifiutiamo fermamente questa concezione in quanto immorale. Un soldato è un cittadino in uniforme. In Israele, molto spesso, è un soldato di leva o in servizio di riserva. Il suo Paese dovrebbe avere un motivo convincente per metterne a repentaglio la vita. Il fatto che le persone coinvolte nelle azioni di terrorismo siano considerate “non combattenti” e risiedano e agiscano nelle vicinanze di persone non coinvolte in azioni di terrore non è un motivo valido per mettere a repentaglio la vita del soldato che le affronta […]. I terroristi si assumono la responsabilità dell’esito di un loro scontro con il soldato e devono quindi subirne le conseguenze”.
Continuano:
“Quando lo Stato non ha un controllo effettivo sull’area degli scontri, non deve assumersi la responsabilità del fatto che persone coinvolte in azioni di terrore operino nelle vicinanze di persone che con il terrorismo non hanno nulla a che fare”.
Qui s’impone una rapida osservazione: in queste citazioni non c’è nulla di strettamente legato alla parola “terroristi”. Sostituendo questa parola con “combattenti nemici”, l’argomento rimane lo stesso. Kasher e Yadlin partono semplicemente dal presupposto che la guerra contro il nemico sia una guerra giusta. La loro affermazione, in parole povere, è che in tale guerra la sicurezza dei “nostri” soldati avrebbe la precedenza su quella dei “loro” civili.
La nostra principale obiezione è che questa affermazione è sbagliata e pericolosa. Essa erode la distinzione tra combattenti e non combattenti, che è fondamentale per la teoria della giustizia in guerra (jus in bello). Peraltro, non vengono fornite buone motivazioni per tale erosione.
Lo scopo della teoria della guerra giusta è quello di regolamentare la guerra, di limitarne le occasioni e di regolarne la condotta e la legittima portata. Le guerre tra Stati non dovrebbero mai essere guerre totali tra nazioni o popoli. Qualunque cosa accada ai due eserciti coinvolti, chiunque sia il vincitore o lo sconfitto, qualunque sia la natura delle battaglie o l’entità delle perdite, le due nazioni, i due popoli, devono essere due comunità che agiscono per ottenere la fine della guerra. La guerra non può essere volta allo sterminio o alla pulizia etnica. E ciò che vale per gli Stati, vale anche per gli organismi politici simili agli Stati, come Hamas e Hezbollah, che pratichino o meno il terrorismo. Il popolo che rappresentano o pretendono di rappresentare è un popolo come tutti gli altri.
L’attributo principale di uno Stato è il monopolio dell’uso legittimo della violenza. Combattere contro uno Stato significa combattere contro gli strumenti umani di questo monopolio e contro nessun altro.
Certo il mondo sarebbe migliore sul piano morale se gli Stati accettassero di limitare le proprie guerre e di farsi rappresentare da campioni come Davide e Golia. Per risolvere le controversie, un duello tra gladiatori sarebbe meglio di una guerra. Ma duelli del genere si svolgevano solo nella Bibbia o nelle epopee omeriche e non nel mondo reale, dove invece assistiamo con sgomento alla tendenza ad allargare, anziché ridurre, la portata delle guerre.
Nella Prima guerra mondiale, solo il 15% delle vittime erano civili, mentre nella Seconda guerra mondiale il totale dei civili uccisi raggiunse il 50%.
Ora, il modo cruciale per limitare la portata della guerra è tracciare una linea netta tra combattenti e non combattenti. Questa è l’unica distinzione moralmente rilevante su cui tutti coloro che sono coinvolti in una guerra dovrebbero concordare.
Dovremmo poi pensare al terrorismo come a uno sforzo concertato per offuscare questa distinzione, in modo da trasformare i civili in bersagli legittimi. Questo significa che quando combattiamo contro il terrorismo non dobbiamo imitarlo.
Lo scontro tra combattenti e non combattenti non è un contrasto tra civili innocenti da un lato e soldati colpevoli dall’altro. I civili non sono necessariamente innocenti, nel senso che non sono esenti da eventuali colpe di azioni malvagie da loro procurate; in questo senso, i civili tedeschi che erano entusiasti sostenitori dei nazisti certamente non erano innocenti. “Innocenza” qui è un termine tecnico: i non combattenti sono innocenti perché non partecipano direttamente allo sforzo bellico; non hanno la capacità di arrecare danno, mentre i combattenti, in quanto combattenti, acquisiscono questa capacità. Ed è la capacità di arrecare danno che rende i combattenti bersagli legittimi nel contesto della guerra. Gli uomini e le donne che non hanno questa capacità non sono bersagli legittimi (i lavoratori delle fabbriche di armi e munizioni creano i mezzi per arrecare danno e pertanto sono bersagli legittimi. Come Elizabeth Anscombe ha sostenuto molto tempo fa, i lavoratori che producono le razioni K, il cibo per i soldati, non creano i mezzi per arrecare danno e pertanto non sono bersagli legittimi. Ma in questa sede non tratteremo tali questioni).
I combattenti sono responsabili solo della loro condotta in guerra. Non diventano criminali perché combattono una guerra di aggressione né acquisiscono un’immunità dagli attacchi perché combattono una guerra giusta, “dalla parte degli angeli”. Il presupposto della teoria della guerra giusta è che tutti i combattenti credono che il proprio Paese stia combattendo una guerra giusta. È una presunzione necessaria e anche ragionevole, visto il modo in cui coloro che diventano combattenti vengono cresciuti, educati e indottrinati. Possiamo chiedere ai soldati di reagire moralmente alle situazioni concrete di combattimento; non possiamo pretendere che giudichino correttamente il merito morale delle ragioni che i loro leader politici offrono loro per spingerli ad andare in guerra.
L’assunzione secondo cui i combattenti hanno una giustificazione soggettiva per il loro coinvolgimento può essere discussa. I mercenari, chi partecipa alle lotte di un cartello della droga contro il governo o i soldati ingaggiati in una guerra di sterminio non sono da ritenersi automaticamente giustificati moralmente. Sebbene mercenari e criminali pensino, naturalmente, di partecipare alla guerra per denaro, non credono di farlo per ragioni morali valide. Le convinzioni dei genocidari non hanno rilevanza nel giudicare il loro comportamento; non facciamo alcuna presunzione a loro favore. Tuttavia, per la maggior parte dei casi nella storia moderna, quella presunzione rimane valida.
Quando due fazioni in guerra affermano di avere la giustizia dalla loro parte, solitamente avanzano richieste incompatibili, ma non contraddittorie. Quando le affermazioni sono contraddittorie, le due parti non possono entrambe avere ragione né entrambe avere torto. Se una parte dichiara: “In guerra sono stati uccisi 10.000 civili”, e l’altra replica: “No, non è vero che sono stati uccisi 10.000 civili in guerra”, una delle due affermazioni è corretta e l’altra è errata. Quando le affermazioni sono incompatibili, al contrario, entrambe le parti possono sbagliare (ad esempio, se una parte sostiene che i veicoli dell’Onu sono verdi e l’altra afferma che sono gialli), mentre non possono avere ragione entrambe.
L’incompatibilità, piuttosto che la contraddizione, caratterizza la maggior parte delle guerre (sebbene certamente non tutte): entrambe le fazioni combattono una guerra oggettivamente ingiusta, ed entrambe credono soggettivamente che la giustizia sia dalla loro parte. E in effetti, potrebbero entrambe avere ragioni legittime di risentimento l’una contro l’altra, e così il conflitto potrebbe presentare elementi di tragedia. Tuttavia, dal punto di vista logico, le due fazioni non possono avere entrambe giustificazioni valide per intraprendere la guerra. Potrebbe essere che una di esse sia giustificata a combattere e l’altra no. Ma è altrettanto possibile, ed è comune nella storia umana, che nessuna delle due parti abbia buone ragioni per scatenare il conflitto. Il fatto che entrambe le parti possano essere nel torto, e ciò accade spesso, è un altro motivo per rifiutarsi di incolpare i soldati per la loro partecipazione a una guerra, qualsiasi essa sia. Anche se il loro paese si trova dalla parte sbagliata, hanno il diritto di combattere. Li condanniamo solo per la loro eventuale condotta immorale durante il corso della guerra.

La posizione che intendiamo contrastare è l’opposto di questa visione. Essa sostiene che solo la parte che combatte per una giusta causa (la nostra) ha il diritto di combattere e che i soldati dell’altra parte non abbiano alcun diritto. Qualsiasi cosa facciano è immorale, sia che attacchino i nostri soldati, sia che se la prendano con i nostri civili. E poiché i nostri soldati e i nostri civili sono ugualmente innocenti, non possiamo chiedere ai nostri soldati di correre dei rischi per proteggere i civili nemici: quei civili sono stati messi a rischio dalla condotta immorale dei loro soldati.
I due sensi della guerra giusta, “jus ad bellum”, la giustezza della decisione di entrare in guerra, e “jus in bello”, la giustizia nella condotta in guerra, devono essere tenuti separati. I capi di Stato dovrebbero essere responsabili principalmente del primo, i soldati e i loro ufficiali del secondo. A prescindere da quale delle fazioni coinvolte nella guerra sia giudicata come quella sbagliata o immorale, l’indebolimento della distinzione tra combattenti e non combattenti mette quest’ultima categoria a rischio in modi nuovi e pericolosi.
La presunzione di giustificazione soggettiva si applica anche ai combattenti di Hamas e Hezbollah. Dovrebbero, naturalmente, essere ritenuti responsabili del loro comportamento in guerra, specialmente quando fanno dei civili i principali bersagli dei loro attacchi, e anche quando utilizzano deliberatamente dei civili come scudi umani. Nessuno di questi crimini però permette ai loro nemici di venire meno all’obbligo di evitare o ridurre al minimo la possibilità di ferire o uccidere i civili.
Ciascuna parte in guerra vede naturalmente i propri soldati non come guerrieri spietati, ma come “i nostri ragazzi”, giovani, puri e innocenti, persone che sono state addestrate e dotate di uniformi dallo Stato e che si trovano in pericolo a causa di un nemico crudele. In molte occasioni, l’opinione pubblica si preoccupa più della vita dei suoi soldati che di quella dei suoi civili. È questo sentimento, comprensibile ma moralmente sbagliato, che si insinua nel documento di Kasher e Yadlin quando scrivono: “Un combattente è un cittadino in uniforme”, così da convincerci che non dovremmo chiedere ai nostri soldati di correre rischi per salvare le vite dei non combattenti dall’altra parte. Quella formulazione però non equivale al dire che un diplomatico è un cittadino con l’uniforme di un capo cameriere. Nel caso dei soldati, l’uniforme non è semplicemente una convenzione; è il segno cruciale della distinzione tra combattenti e non combattenti, distinzione che guerriglieri e terroristi cercano di offuscare non indossandola.
Questo è ciò che ciascuna parte dovrebbe dire ai propri soldati: “Indossare un’uniforme implica accettare il rischio che si assumono solo coloro che sono stati addestrati a infliggere danno agli altri (e a proteggersi). Non dovresti trasferire questo rischio su coloro che non sono stati addestrati, che mancano della capacità di infliggere danni, siano essi fratelli o altri. La giustificazione morale di questa richiesta si basa sull’idea che la violenza è intrinsecamente negativa, e che dovremmo limitarne il più possibile la portata. Come soldato, ti viene chiesto di assumerti un rischio aggiuntivo per contribuire a ridurre l’entità della guerra. I combattenti sono i Davide e i Golia delle loro comunità. Tu sei il nostro Davide”.
In che modo Kasher e Yadlin rendono labile la distinzione tra combattenti e non combattenti? Consentendo ai “nostri” combattenti di saltare la fila per la propria sicurezza, facendo sì che la loro sicurezza venga prima di quella dei civili (chiunque essi siano). Per Kasher e Yadlin non esiste più una distinzione categorica tra combattenti e non combattenti. Invece tale distinzione dovrebbe proprio essere categorica, poiché il suo scopo è quello di limitare le guerre a coloro che hanno la capacità di ferire (o che forniscono i mezzi per farlo).
Ecco un esempio concreto che ci aiuterà a riflettere su chi dovrebbe avere la precedenza, se i “nostri” combattenti o i “loro” civili. Prima della guerra del 2006 in Libano c’erano voci nella stampa israeliana secondo cui Hezbollah aveva pianificato di assaltare il kibbutz Manara nel nord di Israele, adiacente al confine libanese. Non sappiamo quanto credito attribuire a tali notizie, ma l’idea di occupare un kibbutz suona abbastanza plausibile; la utilizzeremo come esperimento mentale per mettere alla prova le rivendicazioni concorrenti di priorità.
Supponiamo che Hezbollah porti a termine questo piano, prendendo effettivamente il controllo dell’area di Manara. Consideriamo ora quattro possibili scenari:
1. Hezbollah ha occupato Manara e tiene in ostaggio tutti i suoi abitanti, cittadini israeliani. I combattenti di Hezbollah si mescolano ai membri del kibbutz in modo da essere protetti nel caso di un contrattacco.
2. Hezbollah ha catturato solo la periferia di Manara e un gruppo di volontari filo-israeliani, non combattenti e non cittadini israeliani, che lavoravano a Manara e vivevano vicino al confine; sono stati sequestrati e usati come scudi umani.
3. Invece dei volontari dello scenario 2, abbiamo ora un gruppo di manifestanti, provenienti dall’estero, che si sono recati al confine settentrionale di Israele per far sentire la propria voce contro la politica di Israele nei confronti del Libano. Hezbollah, noncurante dei motivi della loro protesta, li ha catturati e ora li sta usando come scudi umani.
4. Prima che Hezbollah catturasse Manara, il kibbutz era stato evacuato, e ora Hezbollah ha fatto arrivare dei civili da un villaggio del Libano meridionale per sostenere che la terra del kibbutz appartiene a loro, ma anche per usarli come scudi umani.
In tutti e quattro i casi, Israele sta per lanciare un’operazione militare per riconquistare Manara. Si noti che Hezbollah ha il controllo effettivo del kibbutz e ha in mano il destino dei diversi non combattenti che vi sono detenuti. Noi sosteniamo che Israele sia moralmente tenuto a comportarsi in tutti questi casi come si comporterebbe nel primo scenario, quando a essere in ostaggio di Hezbollah sono i suoi cittadini.
Qualunque cosa Israele ritenga accettabile come “danno collaterale” quando sono a rischio i propri cittadini catturati, questo dovrebbe essere il limite morale anche negli altri casi.
Se, come israeliani, pensate che un’operazione militare potrebbe causare danni eccessivi ai civili israeliani, dovreste avere la stessa preoccupazione per i danni eccessivi causati ad altri civili, siano essi ospiti graditi, sgraditi o nemici non combattenti. Le regole di ingaggio per i soldati israeliani sono le stesse in tutti i casi, a prescindere da cosa provino nei confronti dei diversi gruppi. Osservando queste regole e correndo rischi moralmente accettabili, la responsabilità della morte degli scudi umani di Hezbollah -in tutti i casi- ricadrà solo su Hezbollah.

Quale grado di rischio dovrebbero assumersi i soldati israeliani nel primo scenario? Non possiamo rispondere a questa domanda con precisione. Di certo non devono correre rischi suicidi, né adottare comportamenti che rendano impossibile la riconquista di Manara. Combattono contro nemici che cercano di uccidere civili israeliani o che mettono intenzionalmente a rischio dei civili usandoli come copertura.
Israele condanna queste pratiche; allo stesso tempo, però, uccide molti più civili di quanto facciano i suoi nemici, anche se queste morti non sono frutto di una politica intenzionale (nei combattimenti di Gaza sono morti tredici israeliani, alcuni dei quali a causa di fuoco amico, mentre sono stati uccisi tra i 1.200 e i 1.400 gazani, la metà o più dei quali erano civili). Ora, il semplice non volere le morti dei civili, pur sapendo che si verificheranno, non è una posizione che può essere giustificata dalla condanna del terrorismo da parte di Israele. Come può dunque Israele dimostrare di opporsi alle pratiche dei suoi nemici? I suoi soldati, a differenza di quelli nemici, devono avere l’intenzione di non uccidere i civili, e questa intenzione attiva può essere resa manifesta solo attraverso i rischi che i soldati stessi accettano di correre per professarla.
Non c’è nulla di insolito, né di unico nel porre questa richiesta a Israele. Quando i soldati in Afghanistan, o in Sri Lanka, o a Gaza vengono bersagliati dal fuoco nemico proveniente dal tetto di un edificio, non dovrebbero ritirarsi per richiedere l’intervento dell’artiglieria o di attacchi aerei che potrebbero uccidere la maggior parte o tutte le persone che si trovano nell’edificio o nelle sue vicinanze; dovrebbero cercare di avvicinarsi abbastanza all’obiettivo civile per scoprire chi c’è dentro o per mirare direttamente ai combattenti sul tetto. Senza la volontà di combattere in questo modo, la condanna di Israele del terrorismo e dell’uso di scudi umani da parte dei suoi nemici suona vuota. Nessuno ci crederà mai.

Non dovrebbe però esserci una differenza tra i non combattenti costretti a stare in mezzo ai militanti di Hezbollah e quelli che ci stanno volontariamente -per esempio, gli abitanti del villaggio che sono venuti a Manara forse sperando di prendersi la terra del kibbutz?
La questione è spinosa e gli israeliani dovrebbero essere sensibili alle sue implicazioni. Il quartier generale dell’esercito israeliano -compresa la sua sala di comando delle operazioni di guerra- si trova nel centro di Tel Aviv nord, in una delle sue zone residenziali più costose. Questo non è un segreto, e i civili che vi risiedono si espongono consapevolmente a un pericolo. Dovrebbero essere esposti a maggiori rischi perché vivono lì volontariamente? Noi crediamo di no; forse, piuttosto, hanno diritto a una maggiore protezione da parte del loro Stato. Qualsiasi danno collaterale sia tollerabile per gli altri civili in una guerra condotta con giustizia è tollerabile anche per loro, però nulla di più. Sono chiaramente non combattenti e le regole che si applicano al trattamento dei non combattenti si applicano anche a loro.
Kasher e Yadlin sostengono che “esporre a maggior rischio i combattenti per non mettere in pericolo i civili presenti nell’area dove si svolge un’azione militare contro un terrorista significherebbe assumersi la responsabilità della natura mista della zona di intervento senza che ve ne sia alcuna ragione”.
Siamo d’accordo che i terroristi sono spesso responsabili della “natura mista delle zona di intervento” -possono mescolarsi, ad esempio, con le persone che affollano un mercato per nascondersi o possono sparare dalle case di civili innocenti- ma questo non cambia la responsabilità dei soldati di ridurre al minimo i rischi per i non combattenti.
Se non c’è “alcuna ragione” per una responsabilità di questo tipo, se le vite dei “nostri” soldati hanno davvero la priorità sui “loro” civili, allora perché non potrebbero anche i soldati utilizzare quei civili come scudi umani? Dal momento che non sono stati i “nostri” a scegliere una “zona di intervento dalla natura mista”, perché non potrebbero a loro volta approfittarne? Non vediamo come Kasher e Yadlin possano esimersi dal fornire una giustificazione per una pratica che Israele condanna ufficialmente e che riteniamo sia spregevole: l’uso di non combattenti come scudi umani per i soldati.
Speriamo che Kasher e Yadlin concordino sul fatto che il grado di rischio che i soldati israeliani devono accettare in una “zona mista” come quella ipotizzata negli scenari di Manara sia lo stesso in tutti i nostri quattro casi, a prescindere da chi sia il responsabile della presenza di persone con orientamenti politici e identità diverse. Non è che la responsabilità sia irrilevante, ma chi crea tale promiscuità non libera l’altra parte dai propri obblighi morali. L’affermazione, in questo caso, che le azioni di Hezbollah ci conferirebbero questa licenza non sarebbe presa sul serio in Israele se fossero dei civili israeliani, presenti per caso sulla scena di uno scontro militare, a essere coinvolti.
Queste sono le linee guida che sosteniamo: in presenza di non combattenti dell’altra parte dovete condurre la vostra guerra con la stessa attenzione che avreste se quei non combattenti fossero vostri concittadini. Una linea guida del genere non dovrebbe risultare anomala a chi è guidato dalla frase dell’Haggadah di Pasqua: “In ogni generazione, ogni uomo deve considerarsi come se fosse lui stesso appena uscito dall’Egitto”.
(traduzione di Stefano Ignone)
Tratto da: https://www.nybooks.com/articles/2009/05/14/israel-civilians-combatants/