Franco, Paolo, Daniela, Marcello, Cristiano sono lavoratori ultraquarantenni, andati in mobilità dopo esser rimasti a casa a causa del fallimento della ditta presso cui lavoravano. Vivono a Padova.

Voi siete tutti in mobilità a causa del fallimento della vostra azienda, dovuto a una cattiva gestione, a scelte sbagliate e, forse, anche di un titolare poco onesto e capace. Quali sono i problemi, le ansie, le paure, le rabbie anche, che avete dovuto affrontare? Ci sono state tensioni in famiglia, difficoltà a trovare un nuovo lavoro?
Franco. Al momento del licenziamento abbiamo sentito tutti un grande bisogno di disintossicarci. La crisi era andata avanti per più di un anno e la battaglia era stata difficile. Io poi, come rappresentante sindacale, ho dovuto sorbirmi più di un incontro col titolare, durante i quali reiterava i soliti propositi irrealizzabili, con relativa sequela di sfrontatezze.
Così, quando sono uscito, come tutti gli altri, mi sono preso il mio mese di ferie. Intanto ho cominciato a mandare in giro il curriculum. Siccome prima di entrare in quest’azienda avevo fatto per 15 anni l’insegnante, mi sono detto: perché non riprovarci, magari con qualche centro di formazione professionale? Ho spedito una settantina di curriculum, in vari centri di Venezia, Vicenza, Bassano del Grappa, fino a Rovigo, ma non mi ha risposto nessuno. Mi sono fatto persino raccomandare per un posto in un Centro di formazione professionale di impostazione confessionale, ma anche quel tentativo è stato infruttuoso. Poi ho cercato di spargere la voce, di raccontare in giro che ero in cerca di lavoro… Anche se devo dire non sono riuscito a raccontarlo proprio a tutti, a qualcuno ho mentito, ho detto che continuo a occuparmi di informatica. La sensazione, però, è quella di sentirsi inutili. Il fatto di non essere ancora riuscito a ricollocarmi mi fa sentire male. Mi dico: “Prova a prenderlo come un anno sabbatico”, ma in realtà mi sento un po’ precario. Sono cresciuto in una di quelle famiglie dove ti insegnano che ogni mattina ci si alza per andare a lavorare e fare il proprio dovere, e il non poterlo fare mi fa sentire in colpa. E’ una sensazione strana: sento che il non far niente è una cosa che non dovrei fare, che non è bene fare… Forse è anche per questo che a qualcuno ho raccontato che continuo a lavorare...
Purtroppo, come profilo professionale, sono difficilmente ricollocabile. Adesso sto valutando la possibilità di fare il promotore di leasing per una banca, ma non è facile. Reinventarti come imprenditore, rimetterti in gioco, dopo vent’anni di lavoro dipendente non è uno scherzo. Magari uno l’ha anche desiderato, ma quando ti ci trovi è diverso. Certo, se ripenso a questi vent’anni di lavoro -e non parlo soltanto dell’ultimo impiego- vedere che se sei dipendente le persone possono prendere decisioni sulla tua pelle, e non è nemmeno detto che ne siano capaci…
Le reazioni della famiglia… Mio fratello non dice nulla, mia sorella invece è preoccupata, a mia madre non ho raccontato niente, ha già dei problemi per conto suo. Con la mia compagna, invece, il rapporto, dopo il licenziamento, è migliorato. Prima eravamo in crisi, avevamo grosse discussioni. Lei fa l’avvocato, è una persona determinata e fin da quando le cose in azienda avevano cominciato ad andare male era convinta che bisognasse andar giù duro: “Fatelo fallire subito. E’ un delinquente e bisogna proprio fermarlo”. Invece noi ci eravamo incanalati in una trattativa sindacale più morbida, nella speranza di salvare capra e cavoli e forse, grazie a questa strategia, abbiamo portato a casa la mobilità per diciotto persone (mentre non è detto che facendolo fallire ci saremmo riusciti ugualmente). Comunque c’è stata anche una fase, all’inizio, in cui abbiamo cercato di credere nella possibilità dell’azienda di risollevarsi, e questo causava, appunto, discussioni enormi con la mia compagna, che mi diceva che eravamo una banda di ebeti perché nutrivamo ancora della fiducia… Devo dire che aveva ragione sul fatto che non c’era più niente da salvare, però alla fine si è resa conto che forse la nostra strategia non è stata del tutto sbagliata.
Paolo. Io, dopo la chiusura della ditta sono entrato in un momento di depressione. Perché anche se quello che ti capita non è dipeso dalla tua volontà, si vive ugualmente un senso di perdita, di colpa, di vergogna come se tutto fosse dovuto alla tua negligenza. Poi me ne sono fatto una ragione, ho razionalizzato ...[continua]

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