Yael Danieli dirige il “Group Project for Holocaust Survivors and their children” di New York, da lei co-fondato nel 1975. E’ stata presidente della Società internazionale per gli studi sugli stress da trauma, di cui è ora coordinatrice internazionale e rappresentante alle Nazioni Unite.

L’11 settembre ero a casa, stavo parlando con una mia paziente; lei era in vacanza da qualche parte nel nord degli Usa, mi aveva chiamato dall’auto col cellulare e mi stava raccontando che si stava divertendo. Ebbene, nel bel mezzo della conversazione, alle 8.55, è suonato il mio telefono e la segretaria di un altro mio paziente mi ha chiamato per dirmi che non credeva sarebbe venuto all’appuntamento in quanto era bloccato in centro. Io l’ho rassicurata: “Ma manca ancora un’ora, non c’è problema”. E lei: “Ah, ma non lo sai?”. E io: “Cosa?”. E così lei mi ha spiegato che un aereo era finito addosso al World Trade Center. Allora mi sono messa a guardare fuori dalla finestra, dato che da lì posso vedere le due torri; ho puntato lo sguardo in quella direzione e ho visto il fumo, e mentre guardavo ho visto il fuoco nell’altra torre, non ho visto il secondo aereo, ma ho visto l’esplosione, che credo non dimenticherò mai. A quel punto mi sono fermata un attimo e mi sono detta: “Aspetta un momento, le torri sono troppo lontane perché un aereo possa passare attraverso entrambe. Accendiamo la Cnn”. Così ho detto alla mia paziente, anche lei di New York: “Credo che qui stia succedendo qualcosa di terribile, c’è il Wtc in fiamme, lascia che guardi la tv così sapremo entrambe di cosa si tratta”.
Lei mi ha esortato a farlo. A quel punto anche il Pentagono era stato colpito. Così le ho detto: “Guarda, sembra si tratti di un attacco terroristico. Vuoi che chiami la tua famiglia, che mi informi dei tuoi bambini?”. Perché lei era assolutamente sconvolta.
Così mi ha spiegato in quale scuola fossero i bambini e le ho detto di richiamarmi dopo dieci minuti, il tempo di controllare che tutto fosse a posto. Ho chiamato la scuola e ho chiesto informazioni sui suoi figli; loro stavano bene, la scuola era stata chiusa anche se non sapevano dove evacuare perché il fumo era terribile. Io vivo molto lontano dal World Trade Center eppure, a causa del vento, il fumo era arrivato fino a qui. Dopo poco dalla mia finestra ho visto anche le torri crollare. Una scena davvero incredibile; ancora oggi, ogni volta che guardo fuori, vedere che all’orizzonte le torri non ci sono più è doloroso, disorientante. E sto parlando solo dell’aspetto meno rilevante: il panorama da una finestra. E’ evidente che a quel punto tutto aveva assunto un tono drammatico. Dell’altro mio paziente non ho avuto notizie fino a tarda sera, ed ero molto preoccupata. Lui ha visto tutto, era là, ha visto un uomo buttarsi giù e poi cadere fino a schiantarsi di sotto e morire. E poi i pompieri… non riesce più a liberarsi da quelle immagini. E’ figlio di sopravvissuti all’Olocausto e per lui è stato come se il mondo stesse per finire. Per molta della gente che era là sotto è stata questa la sensazione.

Io sono cresciuta in Israele, ho lavorato in Bosnia, in Ruanda, in Africa, in Argentina; per me quindi, se vuoi, non è stato un vero shock, come senz’altro è stato per gli americani, che erano assolutamente impreparati. Ecco, posso dire che le esperienze che ho vissuto mi hanno senz’altro dotato di una competenza maggiore. Comunque, appena possibile, ho cercato di mettermi in contatto coi miei colleghi, gli altri esperti in trauma, per decidere come muoverci, con quale strategia di sostegno, perché qui si tratta di un processo che si protrarrà nel tempo, perché una reale valutazione degli effetti sarà possibile solo nel lungo periodo.

Allo stato attuale è molto complicato dare un quadro della situazione dal punto di vista psicologico.
Tutti sono stati traumatizzati da questo evento, anche voi, tutto il mondo. Io sono solita usare l’immagine di una serie di cerchi concentrici quando parlo degli effetti di un trauma. Allora, al centro ci sono gli Stati Uniti, ma il cerchio esterno è il mondo intero, che è molto complesso, perché i diversi paesi presentano reazioni diverse e sono stati colpiti in modi diversi. E saranno influenzati in modo diverso. Perché non è finita. E non sappiamo quale sarà la prossima mossa.
E’ un momento molto delicato, perché non si può parlare di cura e guarigione se ancora non sai cos’altro può accadere. Oggi è molto difficile portare a conclusio ...[continua]

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