Annette Wieviorka vive a Parigi dov’è ricercatrice al Cnrs, equivalente francese del nostro Cnr (Centro nazionale delle ricerche), ed è specialista della storia della Shoah, cui ha dedicato diverse opere. L’intervista prende le mosse dal pamphlet L’era del testimone, recentemente tradotto da Raffaello Cortina.

Lei si è occupata più volte del ruolo della testimonianza soprattutto in riferimento alla Shoah. Ma fra il discorso della testimonianza e il discorso storico propriamente detto, basato sulla ricerca negli archivi, la raccolta di dati, la valutazione critica delle fonti, orali e scritte che siano, non esiste una contraddizione?
Nel mio lavoro ci sono due punti di partenza: da un lato, il mio profondo interesse per le testimonianze sulle quali ho lavorato moltissimo; dall’altro, due avvenimenti, per così dire, congiunturali. Il primo di essi è la raccolta di testimonianze filmate ai superstiti della Shoah fatta da Spielberg; il secondo, che mi ha fatto riflettere moltissimo, è il cosiddetto affaire Aubrac, cioè tutta la polemica intorno all’arresto di Jean Moulin, comandante in capo della resistenza francese, la ridiscussione delle versioni successive della testimonianza resa da Aubrac che è sfociata in una tavola rotonda organizzata dal giornale Libération nell’estate del ’98. Si tratta di questo: gli storici hanno sottoposto a critica le variazioni e le incoerenze della testimonianza. Ma, così facendo, si sono rapportati a un testimone vivente nella veste di pubblici ministeri in un processo, quasi intimando al testimone di dire che mentiva, mentre in realtà non mentiva affatto. Tutto ciò mi ha fatto riflettere molto sulla relazione fra testimone e storico, sulla rivalità fra il discorso pubblico del testimone e il discorso dello storico. Quasi che, prima di recepire una storia che non sia più una storia del tempo presente, ossia una storia definita dalla presenza fra di noi degli attori e dei testimoni, ci fosse una sorta di lotta per sapere in quale discorso, se meramente testimoniale o veramente scientifico, collocare questa storia.
Devo dire subito che non ho la religione della storia. Occuparmi di storia è il mio mestiere; non penso, tuttavia, che sul passato gli storici abbiano un monopolio. Ci sono altri modi di conservare il passato nel tempo presente: il cinema, la letteratura, la discussione filosofica.
Tornando al ruolo della testimonianza, mi ha sempre colpito che la testimonianza emerga dalla shoah, nel momento stesso in cui il genocidio si svolge. Significa che in molti ebrei, polacchi soprattutto, nel pieno svolgersi del genocidio, c’era la coscienza che sarebbero sopravvissuti e che la loro scomparsa non sarebbe stata solo una morte individuale, ma una morte totale, nella misura in cui la società in cui vivevano, la civiltà di cui facevano parte erano destinate a scomparire con loro.
Era un sentimento acutissimo, che li spingeva a salvare le tracce del loro mondo, attraverso tutta un’opera di archiviazione cui si sono dedicati gli Judenratte dei ghetti delle città polacche, a partire da quello di Varsavia, attraverso la stesura di memorie e diari privati, scritti con la coscienza di non esprimere semplicemente la propria individualità, ma anche del proprio mondo affinché gli ebrei non siano privati della memoria e della storia.
A me colpisce in modo particolare che queste testimonianze non siano mai state considerate al di fuori della piccola sfera degli studiosi, che mai un pubblico più vasto se ne sia interessato. Eppure molte di queste testimonianze, scritte in lingue poco accessibili, come lo yiddish, l’ebraico, il polacco, sono state tradotte in francese, in italiano, ma non hanno mai fatto parte del canone delle testimonianze della Shoah, che, costituitosi ai nostri giorni, contiene un certo numero di opere, per esempio l’opera di Primo Levi, ma non questo genere di testimonianze. Questo significa che non sono mai state integrate in modo da essere studiate, commentate, lette, insegnate. Eppure quelle testimonianze sono fondamentali perché permettono di scrivere una storia del genocidio che non sia semplicemente la storia di ciò che ha compiuto il carnefice.
Paradossalmente, oggi, più di cinquant’anni dopo gli avvenimenti, si convocano i testimoni e si pretende che parlino. E li si convoca in una situazione che è particolare e che non può distaccarsi dall’epoca nella quale viviamo. Noi viviamo -sto dicendo delle banalità, che però non sono meno vere- nella socie ...[continua]

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