Ferruccio Pastore è direttore di Fieri (Forum Internazionale ed Europeo per la ricerca sulla migrazione), istituto di ricerca indipendente con sede a Torino.

In questi ultimi anni, l’Europa sta mostrando tutti i suoi limiti nell’affrontare la crisi migratoria.
È da almeno tre anni che l’Europa è alle prese con quella che è stata definita "crisi dei rifugiati” o crisi migratoria, e che invece è soprattutto una crisi dei sistemi di risposta, una crisi della governance europea di fronte a un fenomeno che è cambiato di magnitudo, soprattutto a causa dei conflitti in Siria e Libia, ma non è cambiato nella sostanza, cioè nella composizione e nelle cause dei flussi.
Innanzitutto va detto che la stessa distinzione convenzionale tra flussi forzati e flussi spontanei è molto opinabile. Nel corso del Novecento, sui flussi forzati gli stati hanno deciso di limitare, con gradazioni diverse, la propria sovranità, assoggettandosi a un obbligo di ammissione. Sui flussi spontanei invece gli stati hanno sempre mantenuto (e intendono mantenere) la piena potestà discrezionale di ammettere, escludere, respingere.
Ora, i flussi spontanei seguono tendenzialmente l’opportunità: nella misura in cui è possibile, vanno a caccia della domanda di lavoro immigrato. I flussi forzati però non sono completamente determinati da forze che trascendono la volontà degli individui, dei gruppi, delle famiglie. Non è che i flussi forzati siano completamente, esclusivamente forzati, prevedono anch’essi un margine di scelta -certo con vincoli molto più pesanti- sia sul quando e come partire, sul se e come prepararsi alla partenza, e infine sul dove andare.
Ci sono insomma delle strategie, c’è comunque quella che i sociologi definiscono agency, cioè una capacità di agire autonomamente, di determinare -anche se poco- il proprio destino.
Se i siriani avessero potuto investire i loro soldi per fuggire dove e come volevano, si sarebbero distribuiti in maniera sicuramente diversa, probabilmente gravitando sui paesi più ricchi, percepiti come luoghi di maggiori opportunità. Invece tanti non hanno proprio potuto uscire dalla Siria, sono ancora lì, così come tanti iracheni sono ancora intrappolati a Mosul.
Chi ha potuto ha raggiunto la prima frontiera oltre la quale non c’era la guerra, quindi la Giordania, il Libano, la Turchia, l’Egitto in misura minore. Dobbiamo infatti ricordarci che la stragrande maggioranza della popolazione in fuga è rimasta nella regione, circa tre milioni hanno raggiunto la Turchia e solo un milione o poco più ha raggiunto l’Europa, all’interno della quale i più fortunati hanno raggiunto la destinazione privilegiata, cioè il Nord Europa, la Germania, la Svezia.
Quello che vediamo è quindi una distribuzione il cui squilibrio è stato attutito dai vincoli economici, territoriali e politici che hanno limitato la libertà di scelta della stragrande maggioranza dei rifugiati.
Nonostante questo, si ritiene che la concentrazione in alcuni paesi sia eccessiva e quindi un obiettivo primario della politica di alcuni paesi europei e dell’Europa in quanto tale è stato di provare a redistribuire questo onere.
L’Europa però ad oggi non è riuscita a far valere il principio del "burden sharing”, cioè di una condivisione degli oneri dell’accoglienza.
Il burden sharing, cioè la ripartizione degli oneri e la condivisione delle responsabilità è un’espressione che entra nel dibattito europeo nei primi anni Novanta. La stessa scelta del termine, burden, cioè peso, onere, è significativo.
In tedesco si dice Lastenverteilung. Si tratta di un concetto che si impone nel dibattito pubblico quando viene meno la narrazione della Guerra fredda sull’asilo; una narrazione fondata sulla sacralità dell’obbligo di accogliere e sulla natura "meritoria” del richiedente asilo quale eroe della lotta tra i due mondi.
A partire dal 1991, con gli albanesi collocati nello stadio di Bari e poi nel ’92, con la fuga dei primi bosniaci, il richiedente asilo comincia a essere visto come un soggetto ambivalente dal punto di vista della percezione politica. Per certi versi è un eroe o una vittima meritevole di compassione e accoglienza, ma è anche un rischio politico ed economico per gli stati sociali inclusivi e universalistici dei paesi di destinazione.
Fatta questa premessa, arrivo alla tua domanda, cioè come si declina il tema del burden sharing di fronte alla crescita della pressione degli arrivi.
La vera impennata su scala eur ...[continua]

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