Guglielmo Weber è professore di Econometria e direttore della Scuola di dottorato in Economia e management presso l’Università di Padova. Si occupa delle scelte di consumo, risparmio e investimento delle famiglie e di economia dell’invecchiamento. Dirige il gruppo italiano della ricerca Share (Survey on Health, Ageing and Retirement in Europe), che cura la raccolta di dati sugli ultracinquantenni in vari paesi europei. Ha scritto, assieme a Gianpiero Dalla Zuanna, Cose da non credere. Il senso comune alla prova dei numeri, Laterza 2011.

Negli ultimi decenni in Italia, in Europa e in buona parte nel mondo sviluppato i cambiamenti demografici hanno modificato profondamente il modo di vivere delle persone...
I demografi parlano di "New Vital Revolution”, ossia di una nuova rivoluzione demografica segnata innanzitutto da un duplice invecchiamento della popolazione europea -italiana in particolare, ma anche giapponese, americana e di tutti i paesi sviluppati. Duplice perché si invecchia "dall’alto”, nel senso che si è di molto alzata l’aspettativa di vita: negli ultimi quarant’anni la vita attesa si è allungata ogni anno di tre mesi. È come se per ogni anno che viviamo ne consumassimo solo nove mesi; gli altri tre in qualche modo ce li abbuonano. Una situazione incredibile se si pensa che questo è successo in maniera sistematica per oltre quarant’anni.
D’altra parte c’è stata anche una riduzione della fecondità, il cosiddetto invecchiamento "dal basso”. Di fatto si è passati dalla situazione dei nostri nonni e bisnonni con tre, quattro, cinque figli per donna a quella odierna di 1,4 figli per donna. Quindi la popolazione invecchia perché aumenta il numero di anziani e perché, al tempo stesso, si riduce il numero dei nuovi nati.
Questo cambiamento, progressivo, lento e inesorabile, negli ultimi decenni ha modificato in maniera importantissima la vita delle persone e tuttavia le istituzioni e la mentalità fanno fatica ad adeguarsi, a stare al passo.
Per esempio, nel corso degli anni Settanta e Ottanta sono state rese particolarmente facili le pensioni in età di fatto giovanile. Una decisione completamente in controtendenza rispetto a un cambiamento epocale che andava nella direzione opposta. Ma non sono soltanto le pensioni, è tutta la fabbrica della società che non ha tenuto conto in maniera adeguata di questa rivoluzione. Solo ora si sta affermando l’idea che la terza età è un’età attiva, cioè che finché hai la salute devi essere attivo.
Io sono responsabile nazionale per un’indagine sulla salute, l’invecchiamento e il pensionamento degli ultracinquantenni in Europa. Ecco, questa ricerca, che si chiama Share (Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe) evidenzia per esempio che un numero elevato di "giovani anziani” in buona salute, cioè di persone tra i 60 e 70 anni, non svolge alcuna attività né di lavoro, né di volontariato, né di cura di vecchi o nipoti.
Questo è più frequente tra gli uomini, ma anche tra le donne c’è una percentuale importante di persone che non fanno niente. Si occuperanno un po’ delle cose di casa, ma sono inattive e questo ha un effetto negativo sulle prospettive delle loro stesse vite. Perché quello che la ricerca medica ha messo in risalto è l’importanza di tenersi attivi, sia sul piano fisico -e questo lo sappiamo- ma anche sul piano intellettivo.
Così come i muscoli hanno bisogno di essere tenuti in attività, anche il cervello ne ha bisogno  perché in questo modo si creano nuove sinapsi, nuovi collegamenti tra i neuroni. Quindi una persona che si tiene mentalmente attiva invecchia più lentamente e può addirittura migliorare le proprie capacità intellettive.
È il tema della ricerca che ha valso il premio Nobel della Medicina a Rita Levi Montalcini. Mi fa piacere ricordarla anche perché scrisse una lettera a favore della nostra indagine Share. D’altra parte, lei stessa è un esempio vivente che si può invecchiare molto bene. Ora lei ha 102 anni, ma quando ne aveva 95 l’ho sentita parlare in un piccolo gruppo ed era parecchio più sveglia di molti cinquantenni.
Ha parlato delle pensioni. I vostri dati dimostrano che lasciare il lavoro precocemente non fa bene né alla salute né al portafoglio e in più non libera un posto a un giovane. Può spiegare?
Se guardiamo i dati che emergono da queste indagini su campioni rappresentativi delle popolazioni degli ultracinquantenni in Europa, scopriamo che coloro che ancora lavorano in larghissima misura vogliono andare in ...[continua]

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