Santa Parrello insegna Psicologia dello Sviluppo all’Università di Napoli.

Hai parlato della malattia e della nostra visione della malattia e di quanto la malattia può aiutare delle prese di coscienza...
Lo scritto a cui fai riferimento, La malattia come sfida, è stato l’esito di un percorso di esperienza personale ed insieme l’avvio di un lavoro di riflessione e ricerca professionale sul vissuto della malattia: aveva dentro tutti e due questi aspetti. Le esperienze di malattia sono momenti di crisi in cui devi ridefinire una serie di aspetti della vita. Però, affinché la malattia possa essere un’opportunità, possa consentire di ridefinire in positivo la tua vita, servono evidentemente anche delle risorse. Sia nell’esperienza personale che in quella professionale, questo m’è sembrato sempre centrale. Cioè, se hai delle risorse personali, sociali, culturali, di consapevolezza profonda, la malattia può diventare un momento di svolta evolutiva, durante il quale vedi le cose sotto un’altra luce, dai un valore diverso ad alcuni aspetti della vita. Ma tutto lo sviluppo, se ci pensi, è un susseguirsi di sfide e svolte.
Citi due norvegesi che nei loro studi hanno concettualizzato lo sviluppo come un susseguirsi di sfide. Questa ipotesi che salute e malattia appartengano a un continuum contestualizzato e culturalizzato porta anche a vedere proprio lo sviluppo della vita umana in un modo diverso...
Questa concettualizzazione, che a un certo punto è diventato un vero e proprio modello teorico, il modello delle sfide di Hendry e Kloep, mette a fuoco un’idea di sviluppo che non contrappone lo sviluppo normale, tipico, senza intoppi, a uno più ‘sfortunato’, in cui gli intoppi ci sono e bisogna provvedere.
Lo sviluppo è sempre un susseguirsi di sfide, quindi anche nel cosiddetto sviluppo normale non facciamo altro che fronteggiare dei momenti di sfida, con un bagaglio di risorse che va continuamente aggiornato e rigenerato. Nessuno di noi può dire di avere un bagaglio che servirà per tutta la vita ad affrontare tutte le sfide. Deve essere costantemente rinnovato dal contesto, a livello culturale, ma anche a livello affettivo, nel senso che per affrontare la sfida della malattia, o qualsiasi altra, bisogna poter reggere col pensiero, ma anche con l’apparato emotivo, bisogna poter attingere a qualcosa e a qualcuno.
Il concetto di resilienza, che non è l’elasticità, è proprio la capacità di riprendere la situazione dopo una ferita...
Il concetto di resilienza è già diventato antico in psicologia, viene dalla tecnologia dei materiali, perché la resilienza è la capacità di modificarsi senza rompersi, in base alle pressioni esterne. Si discute in psicologia se la resilienza sia un tratto innato oppure no. Ma questa è una discussione che torna su tutto. Io credo però che la resilienza dipenda soprattutto dal contesto relazionale in cui ci si trova, cioè diventi resiliente se ti hanno consentito di esserlo. Sono interessanti gli studi sui piccoli e grandi traumi...
Quindi la resilienza dipende anche dall’accumulo di risorse precedenti l’evento.
Secondo il modello delle sfide ci sono una serie di variabili per cui una crisi può essere adeguatamente fronteggiata trasformandosi in un’occasione di cambiamento positivo, o viceversa diventare un problema insormontabile. Se, ad esempio, a un essere umano capita di essere sottoposto contemporaneamente a pressioni diverse, di natura economica, relazionale, fisica, è ovviamente più difficile che si mostri resiliente. E’ sempre necessario contestualizzare.
Poi c’è un elemento storico, che è l’esperienza...
E’ evidente, osservando le persone che si trovano in questi snodi evolutivi, di fronte a queste sfide, che a volte basterebbe poco, basterebbe una piccola risorsa da offrire dall’esterno, per rendere meno difficile la situazione.
Per esempio, quando mi sono occupata dell’esperienza di ospedalizzazione, le persone intervistate raccontavano di aver dovuto gestire due fronti: da un lato c’era l’evento malattia, più o meno grave, che già di suo è una sfida difficile; dall’altro c’era il sentirsi rinchiusi in un luogo spersonalizzante, che toglie dei diritti, e questo accade all’interno di una cultura che sostiene che non potrebbe essere altrimenti, che ci si deve rassegnare. Ma non è così: potremmo far funzionare gli ospedali diversamente.
Quando si levano diritti alla persona, quando in nome della "presa in carico” si passivizza la persona, si levano a ...[continua]

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