Cari amici,
sono stata per un paio di settimane in Sri Lanka. Come vi ho già raccontato, rispetto a Hong Kong, Taiwan o al Giappone, anche lì è pieno di turisti cinesi che fanno shopping con serietà e dedizione. Trattandosi di una località per loro più esotica di quanto non lo siano Hong Kong o Taiwan, capita, come in Giappone, di vederli "mascherati” da locali mentre brandiscono il bastone per fare i selfie: ragazze in sari che camminano spedite verso i luoghi "pittoreschi”, e poi si fotografano l’un l’altra con una totale mancanza di imbarazzo, lasciando sventolare all’aria un lembo del sari, per fare foto romantiche. E pazienza.
La parte più interessante però non sono tanto i turisti, che appunto sono ovunque. No, quello che è impressionante sono gli investimenti cinesi: in particolare a Colombo, la capitale, sono davvero vistosi, dato che si concentrano sull’impressionante lungomare, quel Galle Green dove le bellissime onde dell’Oceano Indiano si infrangono sul muretto di guardia con forza. Proprio oltre il Green sono in costruzione dei grandi edifici –grattacieli che diventeranno alberghi e palazzi di uffici, fatti dalla Cina e per la Cina. Alle sei di sera, mentre la luce si fa rosa per il tramonto, ecco che escono dai cantieri gruppi di muratori cinesi un po’ spaesati, che aspettano l’autobus che li accompagna in dormitorio.
Ho camminato lungo tutto il lungomare, per vedere cosa stesse succedendo al porto di Colombo, della cui costruzione si sta occupando un’azienda cinese, la China Harbour Engineering Company Ltd. La storia del porto di Colombo è un po’ travagliata: sotto il presidente precedente, Mahinda Rajapaksa, un grande amico della Cina, il porto era stato trasformato da deposito per container a niente meno che una "port city”, a spese dei cinesi. Si trattava di costruire grattacieli, alberghi di lusso, shopping malls e per l’appunto il porto, per un valore di 1.4 miliardi di dollari Usa, tutti cinesi. Per la Cina si trattava di aggiungere perle alla sua collana (la chiamano proprio così: "collana di perle”) che porta dalla Cina all’Europa con una serie di punti scalo per favorire i trasporti di cose e persone, via terra e via mare. Ma l’abbraccio che Rajapaksa ha voluto estendere a Pechino è stato così stretto che pare gli sia costato la rielezione. Pechino infatti stava mettendo su bottega un po’ dappertutto, anche nell’altro porto, quello a sud di Hambantota, e visto che tutti i lavoratori che sono impegnati nei grandi lavori cinesi sono per l’appunto cinesi, ai singalesi la cosa non è piaciuta tantissimo. Nuove elezioni, ed è andato al potere Maithripala Sirisena, che ha prontamente affernato che tutti i grandi investimenti cinesi andavano rivisti, dal momento che non erano stati approvati con le dovute cautele, soprattutto rispetto all’impatto ambientale. Pechino, come era prevedibile, è andata su tutte le furie, e ha fatto pressione là dove Colombo è più vulnerabile: chiedendo, cioè, il rimborso dei prestiti. Subito. Impossibile. Così, senza tante fanfare, Sirisena ha fatto ricominciare i lavori al porto, anzi, alla Port City.
Dunque sul fare del tramonto mi sono messa a passeggiare intorno al cantiere, guardando quanto tutto fosse cinese: gli stessi slogan sulla sicurezza e le meraviglie della progettistica, lo stesso faccione un po’ sovietico del lavoratore con l’elmetto che guarda al futuro, con a fianco i caratteri che dicono "Prima di tutto sicurezza!”, e poi, naturalmente, gli stessi lavoratori con la pelle ispessita dalle intemperie, ma qui un po’ spaesati.
Camminando, ho iniziato a chiacchierare con uno di loro, che mi ha solo detto che si chiamava Zhang -nome talmente comune che magari se l’è inventato perché ero troppo ficcanaso. Mi ha detto che è lì da due anni, e per sei mesi, quando ci sono state le elezioni, non hanno fatto nulla. Ma visto che la decisione di tornare in Cina non è sua, ma dell’azienda, e che ha il permesso di rientrare solo per il Capodanno cinese, se n’è rimasto lì, ad aspettare insieme agli altri. Lavorano dieci ore al giorno, a volte fanno gli straordinari e mangiano nel capannone cinese ("Cibo locale? Mai provato. Non siamo abituati a mangiare cose non cinesi”, mi spiega), dormono in un altro capannone; escono solo per chiamare casa con i cellulari, per avere un po’ di privacy. Sono in ventiseimila. Gli ho chiesto quanto sarebbe rimasto a Colombo in queste condizioni e mi ha detto, come niente fosse: "Vent’anni. È il contratto che abbiamo ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!