Cari amici,
l’altro giorno ho preparato il pranzo per i miei vicini e alcuni giovanissimi amici di mia figlia. I piatti erano eclettici, e così gli invitati. Guardandomi attorno, mi sono resa conto che la nostra tavolata era un arcobaleno di colori: tutti ospiti di origini diverse. I miei vicini erano brasiliani. Anzi, non erano soltanto brasiliani: S. ha origini brasiliane e tedesche, mentre M. discende da schiavi e ha vissuto in una favela di Rio. L. è per metà tailandese e per metà inglese, B. è francese e inglese, e il padre e la madre di A. vengono rispettivamente dalla Sierra Leone e dall’Irlanda. Era un gruppo di giovani interessati e curiosi, un gruppo vivo, caldo ed emozionante, coeso e aperto: l’ideale da ospitare a casa. C’era una tale ricchezza di lingue, culture e musiche -tutte assemblate da mia figlia, lei stessa un mix di origini diverse- e poi c’ero io, una mezza gallese. Quella tavolata era il mio preziosissimo mondo: non vorrei perderlo per nessun motivo. C’è chi sostiene che il multiculturalismo non funzioni; beh, lì funzionava, perché tutt’intorno si avvertiva la voglia di stare insieme. A quanto pare, questo desiderio di convivenza non potrà mai essere spento. E però non possiamo dare nulla per scontato. Non possiamo dare per scontato il modo in cui noi percepiamo l’altro: gli estranei, i rifugiati, i richiedenti asilo, i migranti dall’altra riva, ma neanche il modo in cui l’altro vede noi. Quando l’altro si siede alla nostra tavola, deve farlo con un certo rispetto e con il desiderio di conoscere meglio chi vi è già seduto.
I fatti di Colonia ci hanno ricordato che da ambo le parti c’è bisogno di scoprire tolleranza e rispetto; hanno purtroppo offerto un pericoloso vantaggio ai politici più scaltri e maliziosi e hanno invece disorientato chi vorrebbe essere più tollerante ma è messo in difficoltà dal ritmo dei cambiamenti.
Quando esco dal mio mondo incantato e alzo gli occhi al cielo, vedo soltanto arcobaleni pallidi. Gli ultimi sondaggi d’opinione mostrano che il numero di coloro che vogliono lasciare l’Europa è più alto del numero di quelli che vogliono rimanervi.
Io prego che il 2016 non venga ricordato come l’anno dello scisma. Prego che il voto che deciderà se lasceremo l’Europea venga affrontato senza paura, che le dichiarazioni d’intenti prediligano ciò che è diverso eppure ci avvicina, piuttosto che ciò che ci acceca e divide. Non ci sarebbe da meravigliarsi se qualcuno si chiedesse dove si sia nascosta la leadership pro Europa.
Sappiamo tutti dove si annida la ‘Brexit’ : nella parodia di una Little England di cartapesta. Invece abbiamo bisogno di qualcuno che non abbia paura di rimanere ancorato a un’ottimistica fiducia nell’umanità e nel progresso. Un campione, un cavaliere, un idealista con una visione politica che duri più di cinque anni...
Questa settimana è iniziata in lacrime. È sorprendente il modo in cui la morte di David Bowie abbia proiettato la sua ombra su tutti i media del paese, come la stella nera che dà il nome al suo album d’addio. I primi 17 minuti del notiziario della Bbc delle dieci sono stati interamente dedicati alla morte e alla vita di David Bowie, il più eclettico fra gli artisti.  Non c’è da stupirsi se diventò -con una sorta di preveggenza- "L’Uomo che cadde sulla Terra”, nel film in cui l’alieno umanoide Thomas Jerome Newton arriva sulla Terra alla ricerca di acqua per il suo pianeta oppresso dalla siccità ma fallisce, poiché l’America -paese creato da immigrati- vede i nuovi arrivati come una minaccia. E così è stato per tutta la settimana. La gente ha pianto con sincerità un uomo curioso, di origini modeste, innamorato del potere e della verità della forza creativa e che mai dimenticò di essere una brava persona. Se è vero che David Bowie aveva mille facce, è stata la sintesi delle varie epoche a renderlo un genio. Arrivava all’escluso che è in ognuno di noi attraverso il tempo e lo spazio, e lo faceva restituendoci un senso di appartenenza. Appena andata via di casa con una valigia piena di timidi intenti, la voce di David Bowie cantava nel buio: "No, love. You’re not alone...”.
Avere un senso di appartenenza, per gli esclusi, è una manna; quindi come ha potuto il governo lasciarsi sfuggire molti dei 1.5 milioni di cittadini che sono usciti dal sistema di welfare? Alcuni sono andati all’estero o hanno trovato lavoro, ma molti di questi che hanno lasciato il sistema o sono semplicemente spariti sono i più deboli e vulner ...[continua]

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