A questo punto e avendo passato già quindici anni nel Duemila, possiamo chiederci senza remore né pudori scolastici: è leggibile, in che misura è leggibile oggi la nostra poesia del Novecento? La domanda, il dubbio sembrano fatti apposta per parlare di Guido Gozzano. Non solo di lui, ma soprattutto di lui, che con Saba è stato il più "ottocentesco” dei primi poeti del Novecento. In loro la modernità, per quanto si annunciasse con chiari segni (culturali, sociali, politici) non è stata un programma. Dietro i loro versi non c’è un’idea nuova di poesia. La loro è anzitutto una situazione personale, che come tale viene descritta in dettaglio e con il minimo di censure letterarie. Dietro la loro poesia c’è un diario, ci sono confessioni, descrizioni dal vero e racconti da mettere in versi che abbiano una riconoscibile musica di versi, anche a costo di sembrare una nostalgica o umoristica parodia della poesia. Le analogie fra Gozzano e Saba tuttavia finiscono presto: si limitano al loro istinto di trascinare l’Ottocento nel Novecento, un Ottocento piuttosto innocente, visto in una luce di crepuscolo, eppure evocato con un nitore da riproduzione fotografica.
Con queste ultime parole mi riferisco molto più a Gozzano che a Saba. È Gozzano che parla di pirografie, di cartoline, di dagherròtipi. L’alto grado di leggibilità di Gozzano è dovuto a procedimenti visivi, minuziosamente descrittivi, da novella versificata. L’intero repertorio stilistico della narrativa viene trasferito in un genere di poesia che tende irresistibilmente al poemetto: c’è una scenografia, è in corso una scena, ci sono personaggi, incontri, dialoghi, episodi e aneddoti. E c’è quella psicologia che è necessaria sia al ritratto che all’introspezione del personaggio-poeta. È proprio quest’ultimo che fa della composizione più famosa di Gozzano, La signorina Felicita ovvero la Felicità, una novella in versi romantica " fuori tempo”, con la perfetta, fin troppo perfetta tipizzazione della ragazza semplice e dell’avvocato sognatore, sentimentale e incapace di sentimenti. Appena un passo più in là rispetto a D’Annunzio (voracissimo esteta) e a Pascoli (un sismografo letterario iperpercettivo e insieme ossessivo), Gozzano è lì con loro e altrove. È meno letterato e più borghese. Non è né un malato professore di lettere né un avventuriero a caccia di piaceri inimitabili. Metricamente è meno curato, esibisce una certa nonchalance o inabilità formale. Il principe dei critici stilistici italiani, Gianfranco Contini, nota che le capacità tecniche di Gozzano, che a qualcuno sono sembrate o possono sembrare virtuosistiche, risultano abbastanza approssimative se confrontate con quelle eccezionalmente colte di Pascoli. I poeti del Novecento, che hanno spesso voluto presentarsi formalisticamente sofisticati, mostrano di aver perso competenza metrica, anche se cercano a volte di ottenere effetti di sorpresa violando regole che non erano più capaci di padroneggiare (la stessa cosa si può dire per la musica e soprattutto per le arti visive).
Le risorse comunicative di Gozzano sono dovute a un esperimento riuscito nell’accostare, magari con qualche intenzionale goffaggine, il prosastico e il poetico, il parlato borghese e un’ostentata vocalità metrica. È come se scrivesse recitando da letterato, ma per essere letto anche, se non soprattutto, da non letterati. La sua poesia, i suoi versi allestiscono una perfetta messa in scena, un teatro al quale il lettore-spettatore non può resistere. Basta citare poche strofe e si entra subito nel gioco, "in medias res”, davvero in mezzo alle cose, ai fatti, letteralmente, secondo la regola che Orazio prescrive al poeta epico:

Signorina Felicita a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? tosti il caffè,
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.

(...)

Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga...

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia...

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

(da I colloqui, 1911)
Invece che l’attuazione di una poetica della modernità, in Gozzano c’è una decisiva deviazione o correzione di tono rispetto a Pascoli e D’Annunzio. Al poeta-vate inteso come voce e coscienza di tutti, di una nazione e di un’epoca, compare in lui il poeta come singolarità, individuo idiosincratico, intellettuale inadatto e borghese inutile. Tutta l’ideologia letteraria di Gozzano è perciò esemplificata nell’autoritratto del personaggio-poeta: coincide con la sua situazione di ultimo epigono pateticamente e umoristicamente parodistico di una tradizione romantica che ebbe il suo precursore classico e nume in Torquato Tasso. Il romanticismo di fine Ottocento sopravvive nei suoi versi come scenografia, come arredo, bric-à-brac di ricordi e modi "di una volta”, sopravvivenze abitudinarie di una borghesia media, mediocre e arretrata, chiusa nel suo piccolo mondo, nel suo modo di vita, nei suoi sentimenti prefabbricati, nella sua moralità piatta e miope.

Poeta che narra e teatralizza (anche in senso melodrammatico), Gozzano mette in scena una cosa, la normalità borghese, ma ne esprime un’altra: il disagio estetico, la titubante perplessità e passività morbosa del poeta. Invece che esprimersi direttamente in forma lirica, si autorappresenta, si tiene a distanza denunciando simultaneamente la propria incapacità di uscire da se stesso. Alle sue spalle, il lettore può intravedere Cechov o i primi romanzi di Svevo: la vita privata come crepuscolo, solitudine, fallimento e senilità precoce.

Tanto l’umanitarismo socialista di Pascoli che il superomismo estetico di D’Annunzio potevano sostenere il messaggio poetico anche come messaggio politico nazionale. In Gozzano la politica è assente, è vista da lontano e con definitiva diffidenza come lotta eterna e inconcludente, darwinistica e infantile, tra "formiche rosse” e "formiche nere”.
Tecnicamente Gozzano è un poeta che di proposito non innova: riusa e cambia tono, provocando un rovesciamento fondamentale di ottica con il minimo impiego di invenzione. Restaura modalità tradizionali di verso prosastico e narrativo per mostrare meglio una distanza ironica e scettica incolmabile sia dal passato che dal presente. Presenza del passato e distanza dal passato sono il quid, il sale, lo scarto che rendono Gozzano inconfondibile. In lui lo stacco fra Ottocento e Novecento è vissuto come pathos di un equilibrio instabile, shock della cesura fra ciò che è stato e il suo "mai più”.

L’oscillazione del tono è fra sentimentalismo e freddezza, vicinanza percettiva e distanza mentale. C’è nel poeta la classica polarità che caratterizza l’arte dell’attore, tanto più tecnicamente efficace nell’acting, nella performance espressiva e recitativa, quanto più emotivamente distaccato. Per creare con sicurezza e fermezza stilistica questo distacco, Gozzano ha bisogno dell’Ottocento. Deve proiettare in un passato già figurativamente fissato la propria situazione di sterilità psicologica e sociale, le proprie ansie di borghese e di poeta senza fede. La sua è una crisi raccontata, illustrata all’interno di una cornice sociale, di un ambiente abitato da personaggi. Rispetto alle poetiche che diventeranno rapidamente le più tipiche del nuovo secolo, per iniziativa di suoi coetanei solo di qualche anno più giovani, da Campana a Ungaretti, l’artigianato di Gozzano, la sua vocazione narrativa, la sua ironica socievolezza, il suo naturale talento comunicativo, erano e restano un fenomeno sorprendente. La filosofia e l’angoscia della crisi di inizio Novecento invece che investire la poesia mandandola in frantumi o deformandola, vengono distanziate e descritte realisticamente senza evitare gli effetti socialmente comici del disagio esistenziale (nella stessa direzione, ma meno estremizzata, di Palazzeschi).
Gozzano è stato quasi il solo poeta del Novecento capace di convincere Benedetto Croce, uomo di gusti irremovibilmente classicistici e ottocenteschi. Benché abbia conquistato subito i lettori e non sia stato affatto ignorato dai migliori critici della sua generazione (Giuseppe Antonio Borgese, Renato Serra, Emilio Cecchi) in realtà Gozzano, dopo la sua morte precoce nel 1916, è diventato un’assenza più che una presenza nella poesia novecentesca. La sua riscoperta ha avuto inizio solo nel 1951 con un breve ma decisivo saggio di Montale, per culminare poi negli studi che gli ha dedicato Edoardo Sanguineti insistendo sull’idea di Gozzano come "borghese onesto” che si vergogna di essere un poeta. Ma nelle poche pagine di Montale (ristampate nell’edizione Garzanti 1960 delle Poesie) c’è tutto l’essenziale: Gozzano è accostato a Puccini, lo si definisce "infallibile nella scelta delle parole (il primo che abbia dato scintille facendo cozzare l’aulico col prosaico)”, si dice che "ebbe l’istinto e la fortuna di saper restare quello che era [...] davvero piemontese e davvero borghese”. Infine, un’osservazione di Montale che vale in questo e in altri casi: "bisogna riconoscere che quella poesia è stata non la più ricca e la più nuova, ma la più ‘sicura’ di quegli anni. Sarà forse poca cosa, quella poesia; ma non si dubita mai ch’essa esista; mentre questo dubbio ci assale continuamente leggendo D’Annunzio e Pascoli”.